L’inutilità delle parole

Ero traboccante di emozioni. A quell’altezza, il fiato corto, l’aria tersa, vedere librarsi nel cielo, all’improvviso, quei tre enormi esemplari di condor mi aveva sopraffatta. Non mi aspettavo sensazioni così forti sulla pelle ma, in quel mondo di sogno, mi era parso di poter spiegare le ali con loro e planare, lentamente, in senso circolare, sopra l’infinito. Nello stupore più totale arrivai in paese e lo vidi. Non so cosa mi attrasse, forse solo quegli occhi chiarissimi e leggermente strabici, l’età indefinibile, il volto diverso, nei lineamenti e nei colori, da quello della gente di li. Una camicia azzurra, di cotone, non un maglione o un poncio colorato, le rughe profonde a segnare la fronte, poca barba incolta, ciuffi di bianco tra il nero corvino dei capelli. Ci fissammo. Mi avvicinai e gli porsi una sigaretta. Senza parlare ci sedemmo, sul gradino fuori dal negozio, vicini, ma discosti, e come due vecchi amici che si conoscono da tempo, guardammo le volute di fumo salire lentamente per riflettersi nella luce intensa del primo pomeriggio. Sempre senza una parola ci furono una foto, un sorriso, una stretta di mano. Presi lo zaino e salii sul pullman. Ma lui è ancora con me, insieme ai condor.

La strada per la libertà

Loreta Asanavičiūtė era una ragazza da far innamorare. Aveva capelli neri, leggermente ondulati, di lunghezza media, con la riga a sinistra. Occhi scuri, sopracciglia folte e dritte e una bocca che non passava inosservata, con labbra piene, ben definite. Era minuta, con un collo lungo e sottile. La cosa più toccante era il suo sguardo serio… Doveva avere un carattere tranquillo, timido e introverso.
Da Anime Baltiche di Jan Brokken

Loreta era nata il 22 aprile del 1967 a Vilnius a quel tempo capitale della Repubblica Socialista Sovietica di Lituania.
Nel 1944, al termine del conflitto mondiale, i Paesi Baltici persero la propria indipendenza ed entrarono a far parte stabilmente dell’Unione Sovietica dato che quest’ultima sostenne che il Patto Molotov-Ribbentrop per la loro annessione fosse già stato stipulato con la Germania nazista prima dell’inizio delle ostilità e negando, pertanto, che ci fosse stata un’occupazione dei Baltici. Gli Stati Uniti e la maggior parte degli stati vincitori non riconobbero mai all’URSS l’annessione, tuttavia non fecero nulla per opporvisi limitandosi a mantenere presenti nei territori occidentali le ambasciate dei tre Paesi.
Il 23 agosto 1989, esatto cinquantenario della firma del patto Molotov-Ribbentrop, Lituania, Lettonia ed Estonia diedero al mondo una colossale dimostrazione di unità: la Via Baltica, Baltijos kelias, concretizzò quello cui gli organizzatori ed il movimento indipendentista Sajūdis stavano lavorando da poco più di un mese. Due milioni di persone, un quarto circa della popolazione delle repubbliche baltiche dell’epoca, scesero per le strade cantando, tenendosi per mano, portando fiori e nastri da lutto sui costumi popolari per commemorare le vittime della repressione. Più di 600 km di una catena ininterrotta di mani unite ad unire le tre capitali, Vilnius, Riga, Tallinn e, tra quelle, anche le mani di Loreta.
Nei mesi di gennaio e febbraio del 1991, a Vilnius, la protesta contro il regime si intensificò e si svolse prevalentemente davanti alla Torre della Televisione che venne occupata allo scopo di diffondere il messaggio libertario. I rivoluzionari erano disarmati. Nella notte tra il 12 e il 13 febbraio, Loreta era di guardia alla torre con due amiche; nella stessa notte Vilnius era occupata dai carri armati inviati da Gorbacëv per reprimere la rivolta. Dinnanzi alla folla pacifica ed in diretta televisiva ininterrotta, il governo sovietico si vide costretto a richiamare i blindati, non prima, tuttavia, di aver lasciato a terra quattordici vittime, tra le quali Loreta. Si racconta che, al suo arrivo in ospedale, ella fece in tempo a porre due semplici e disarmanti domande: “Dottore sopravvivrò? Potrò ancora sposarmi?”. Poi morì. Aveva 23 anni.
Loreta aveva soltanto un anno meno di me; chissà, se non fosse morta in questo mio viaggio avrei potuto incontrarla in un negozio, come guida ad un museo, per strada, con i suoi figli. Avrei potuto incrociarla in un qualsiasi aeroporto, finalmente libera, finalmente Lituana, finalmente Europea. Ci saremmo potute conoscere in un altro viaggio, in un diverso continente ed avrei potuto guardarla negli occhi e vedere il suo orgoglio per aver lottato e contribuito a costruire la sua Nazione nonché a rivendicarne l’appartenenza all’Unione Europea ed alla Nato, baluardi a difesa di quell’indipendenza tanto duramente conquistata la quale, ancora oggi, deve fare i conti con la minacciosa vicinanza della Russia di Putin, che non ha mai nascosto di considerare tuttora i baltici parte della propria “sfera d’influenza”. Avremmo potuto parlare di tante cose, credo. Mi domando, però, cosa avrebbe pensato di partiti sovranisti quali la Lega, il Rassemblement National, l’Alternativa per la Germania o il partito delle Libertà Austriaco che si dichiarano vicini al presidente Putin nelle questioni dei rapporti con la Russia e se non avrebbe guardato con paura all’aumento del consenso di EKRE in Estonia. Chissà se avrebbe condiviso con me l’idea che quella ottusa e cieca parte di Europa che si sta lasciando incantare da una retorica del tutto priva dell’idea di solidarietà e che guarda con occhio accondiscendente, se non addirittura complice, agli innumerevoli episodi di razzismo ed intolleranza dimostra che poco ha davvero imparato dagli orrori del passato e che, in tal modo, sta permettendo a quella stessa retorica di cancellare dal nostro DNA la capacità ed il coraggio di creare una catena di mani a difesa del nostro futuro e della libertà.

Maximón

I bambini corsero incontro alla lancia coperta appena attraccata presso il piccolo molo. Mentre alcuni si tuffavano gioiosi nelle calme acque del lago tra le barchette dei pescatori che ciondolavano pigre, due piccini, gli occhi grandi e scuri, scintillanti di pagliuzze ramate, mi si avvicinarono: “Hola señorita…! ….Maximón señorita? Por aqui. Cinco quetzales”. Sorrisi. Mani piccine strinsero le mie e, al ritmo di gorgheggi e trilli cristallini, mi guidarono, quasi correndo, lungo il villaggio di Santiago, tra strette vie, disordinate e sporche, che si arrampicavano lungo una pavimentazione di sassi solo a tratti ingentilita da piccoli ciuffi d’erba, pannocchie multicolori appese alle pareti, cucine di strada ed utensili d’ogni forma e dimensione abbandonati ovunque. Un dedalo di case basse, simili tra loro, poche donne in giro, qualche uomo seduto fuori della porta sonnecchiante sotto il cappello a tesa larga. Avevo letto di Maximón nella mia guida ed in alcuni diari di viaggio e quasi tutti parlavano piuttosto male di questo “santo fantoccio”, dipingendolo come un imbroglio per turisti ed un modo semplice per recuperare poco denaro. Ma io ci tenevo a vedere con i miei occhi di cosa si trattasse. Avevo già avuto modo di osservare molte chiese in Guatemala e lo strano culto dei santi di questo popolo al quale la religione cattolica era stata imposta dagli invasori spagnoli. “Radi tutto al suolo, distruggi, imprigiona, uccidi…su questa tabula rasa costruirai le tue chiese e convertirai nuove genti”. I Maya, probabilmente, avevano subito, come altri mille popoli, mantenendo tuttavia quella loro singolare autonomia ed originando un culto forse bizzarro, ma molto affascinante, dove le statue dei santi erano abbigliate con stoffe multicolori e trasformate in suggestive mescolanze tra icone cattoliche e idoli pagani, e petali di fiori, frutti, cereali e candele a terra, accompagnavano il credente prostrato dinnanzi all’immagine del proprio credo. Giunta dinnanzi ad una povera abitazione fui introdotta in un’angusta stanza al cospetto di Maximón, a cui si indirizzano le invocazioni locali per i bisogni più importanti. Gli occhi ci misero un po’ ad abituarsi alla penombra fino ad identificare quel curioso groviglio tra un culto religioso cristiano ed uno esoterico. Alla mia destra un altare, addobbo di pizzi e frange, un quadro raffigurante una madonna con bambino e moltissimi ex voto alla parete, candele, ceri, fiori di plastica ovunque, appesi al soffitto festoni, palloncini, carta colorata, cravatte. Odore di sigaro e incensi; dinnanzi a me, questo strano idolo, un pupazzone di legno, in posa di uomo seduto su uno scranno e, di fianco a lui, due tizi, che scoprii più tardi essere i custodi sempre presenti, notte e giorno. Maximón era davvero ben abbigliato: scarpe di pelle, di foggia italiana, abiti di buona fattura, sciarpe di seta, una certa quantità di cappelli impilati. Un grosso sigaro in bocca. Per terra alcune candele immerse in uno squaglio di cera multicolore. Avevo letto che questo idolo predilige, in dono, oltre naturalmente a quetzales o dollari, sigarette e rum. Domandando con lo sguardo il consenso ai custodi poggiai una sigaretta nella vaschetta delle offerte convinta che, immediatamente dopo la mia uscita, i due se le sarebbero intascata, ma, con mio sommo stupore, quello di sinistra la raccolse, la mise in bocca al pupazzone e gliela accese impiegando lo stesso cerino per accendere una candela, il tutto muovendosi con devozione e rispetto. Offrii una sigaretta anche ai custodi e tutti e tre se la fumarono con gusto, in religioso silenzio. Non posso negare che, se avessi avuto una bottiglietta di rum, sarei stata curiosa di vedere se quello strano totem di legno allegramente abbigliato si sarebbe bevuto pure quella! Il sudore cominciava a scendere lungo il collo in piccole stille; mi soffermai ancora pochi istanti, rifiutando la foto ma lasciando comunque un’umile offerta ed uscii, ritrovando i bimbi saltellanti esattamente dove li avevo lasciati. Un anziano signore mi spiegò che Maximón è molto amato e rispettato e che porta benessere a tutti in quanto vive nelle case, migrando, di anno in anno, da una famiglia all’altra e distribuendo così in modo equo tra gli abitanti del villaggio la fortuna della cacciata degli spiriti maligni e del poco benessere economico che l’avvento di turisti e pellegrini apporta. Insomma, sarà anche strano, un idolo vanitoso, tabagista ed alcolista ma, che dire, io l’ho trovato simpatico e molto, molto giusto.

L’arcobaleno

Lei avrà avuto tre anni, credo, il fratellino cinque. Non so dirvi se parlassero il quechua o l’aymara, certamente non parlavano lo spagnolo, ma quel giorno non ci fu bisogno di un idioma comune per comunicare. Il mio zainetto era colmo, come sempre, di carta, biro e, soprattutto di pastelli colorati; le caramelle sono buone, ma i dentisti costano molto e non si trovano con tanta facilità da quelle parti, mentre le matite ed i colori durano di più, creano sogni, e, soprattutto, non fanno male a nessuno.

Presi due pastelli, del colore del fuoco e del cielo, e li porsi alla piccina che, di rimando, mi scrutò con un’aria perplessa…probabilmente le sembrava già molto bizzarra questa signora dalla pelle chiara e dai capelli biondi ma con ancora maggiore curiosità osservò quei due oggetti che le parvero, credo, assolutamente strani e misteriosi.

Non mi era mai capitato di offrire dei pastelli colorati ad un bimbo e di avere, netta, l’impressione che non sapesse cosa farsene. Credo che al momento rimasi più interdetta di lei. Ci guardammo. Curiose. La presi per mano, non mi sembrò infastidita da questo, andai verso il tavolo di legno con la panca, al centro del paese, mi sedetti e la sollevai sulle mie gambe.

Tutte le volte che prendo in braccio un bambino le sensazioni sono le stesse…mi si scioglie qualche cosa nello stomaco, mi riempio di una dolcezza infinita, come se, per un momento, quel vuoto che per tanti anni ho vissuto come un castigo, e che, con il tempo, si è fortunatamente sopito e trasformato, si farcisse di una gioia infinita.

I suoi vestiti multistrato di lana pesante erano duri e rigidi come il cartone, sporchi, forse, o ricoperti da quella poca salsedine presente in quel lago leggermente salato. La lunga treccia nera e lucida, scendeva impertinente dal cappellino colorato ed i grandi occhi profondi non mostravano alcuna forma di diffidenza; sembrava a suo agio, sulle mie gambe fortunatamente non ossute, e pertanto, suppongo, abbastanza accoglienti per quella piccola creatura.

Presi un foglio e cominciai ad abbozzare quei soggetti, banali, infantili, che mille e mille volte avevo già disegnato per le mie nipotine, curiose come delle scimmiette, sempre pronte a nuove richieste mettendo, talvolta mi sembra di pensare con fanciullesca soddisfazione, in serie difficoltà la zia dotata di doti artistiche non propriamente esperte.

Come mi sentii quel giorno non so descriverlo…una fata, forse. Sul foglio bianco comparve un pesciolino rosso…i mie pesci hanno le ciglia lunghe, le labbra carnose e non sembrano certo patire la fame, direi. Gli occhi scuri, attenti, si aprirono un pochino di più…ed una piccola luce si accese; ricevetti uno sguardo che non mi permise di smettere. E fu così che comparve un fungo, gigante, con una porticina e tante finestre, da una delle quali, un bruco curioso con un cappello in testa, guardava i fiorellini sottostanti. La piccina sgranò gli occhi e lo accarezzò, delicatamente, dicendo qualche cosa che non capii, ma che arrivò dritto al mio cuore. E nacque allora una lumaca, con il comignolo fumoso e le lunghe antenne sfiorate da due inverosimili farfalle dalle dimensioni spropositate. Ma, misteri della carta, questa volta vennero alla luce soltanto i loro bordi…e poi ci ritrovammo, insieme, la sua manina scura, chiusa attorno a quei magici strumenti nella mia mano bianca, a riempire quei vuoti, di mille colori e mentre l’arcobaleno affollava quel piccolo foglio sentii quella risata, squillante, pura come lo scrosciare di acqua di montagna, la vidi felice e mi sentii in perfetta sintonia con lei. Senza parole.

Le parole mi vennero, la sera, quando ripensai a quei momenti e ancora oggi, mentre ricordo; sono parole di gratitudine per quello che la vita mi ha donato, parole di preghiera, e non importa in che lingua siano dette o a che Dio siano rivolte.

Padre nostro

Yayayku hanaq pachapi kaq,
sutiyki yupaychasqa kachun.
Kamachikuq-kayniyki takyachisqa kachun,
munayniyki kay pachapi ruwakuchum,
Imaynan hanaq pachapipas ruwakun hinata.
Sapa p’unchay mikhunaykuta quwayku.
Huchaykutapas pampachawayku,
imaynan ñuqaykupas contraykupi huchallikuqniykuta panpachayku hinata.
Amataq watiqasqa kanaykuta munaychu,
aswanpas saqramanta qispichiwayku.
Qanpan kamachikuq-kaypas, atiypas,
wiñaypaqmi yupaychasqa kanki.

Amen