Bilanci e sorrisi

Sono stata assente a lungo da questo mio povero blog, lo so; ho continuato a raccogliere pensieri sparsi su carta, tra le pagine di un libro, un postit volante e il mio piccolo quadernetto sgangherato ma non li ho più deposti qui.

Non è stata mancanza di tempo, forse solo questione di priorità, ma in questi quasi due anni tanto è cambiato per me e in me da assorbire in toto le mie attenzioni e cure. Ora, come spesso accade a fine anno, posso fare un bilancio e dire a me stessa che in questo momento della mia vita più che in ogni altro, mi sento grata per ciò che mi è stato dato e orgogliosa per quanto sono riuscita a fare.

– La mia famiglia ed i pochissimi veri amici, sempre presenti a dare amore, fiducia, coraggio.

– Un lavoro nuovo, completamente diverso, per il quale non avevo competenze e che qualcuno mi ha voluto comunque offrire dandomi una nuova opportunità. Una bella sfida a 57 anni arrivare in un ambiente dove sei la “novellina” che deve imparare tutto da zero ma che ventata di entusiasmo, di curiosità, quanto ossigeno per i miei neuroni sopiti! Lo rifarei? Si, mille volte, per le persone con cui lavoro, per ciò che ho imparato e tutto quello che ho ancora da imparare, perché la mia mente si sente più giovane e perché, ancora, non anelo alla pensione ma piuttosto ad una vita lavorativa equilibrata e ricca di soddisfazione.

– Una casa nuova, o meglio, il mio microscopico nido che sempre mi ha accolto in tutti i momenti della mia vita in cui avevo bisogno di curare le ferite, che si è trasformato, dopo due mesi di distruzione e “ressurrezione” diventando, come nei miei sogni, un ambiente luminoso e caldo che non riesco a smettere di guardare e dove anche il piccolo Brandy, gatto rosso e rustico sembra trovarsi davvero a suo agio.

Questi i miei bilanci e tantissima la serenità che oggi sento dentro di me. Non posso che ringraziare la vita sorridendo.

Suggestioni

C’est vraiment un lieu délicieux ce lac d’Orta. A l’entour, des rives à la fois sauvages et cultivées: le monde que le voyageur a vu, se retrouve en petit, modeste et pur, et son âme reposée le convie à rester là, car un charme poétique et melodieux l’entoure de toutes les harmonies, et réveille toutes idées. C’est à la fois un cloître et la vie. (Honoré de Balzac)

QUANDO IL DRAGO ALZA LA TESTA

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In Cina, c’è un detto che recita: “二月二,龙抬头 (èr yuè èr, lóng tái tóu) ossia ” Il secondo giorno del secondo mese il drago alza la testa”. Questo giorno segnala l’arrivo della primavera, della stagione agricola e, quindi, di una nuova vita. La festa di Lóng tái tóu, detta anche “春龙节 (Chūn lóng jié), o Festa del drago della primavera, prende il nome dall’antica astronomia. Nel cielo orientale si possono infatti riconoscere sette costellazioni che, unite tra loro, ricordano la forma di un drago; in inverno tutte le costellazioni si trovano dietro l’orizzonte settentrionale e non sono visibili mentre, con l’arrivo della primavera, due delle costellazioni del drago, quelle che rappresentano la parte superiore, spuntano sopra l’orizzonte meridionale diventando visibili mentre il resto del corpo del drago resta ancora nascosto. Il giorno in cui ciò accade è detto, appunto, 龙抬头 Lóng tái tóu, ovvero “drago che alza la testa”.

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Il drago riveste un ruolo egemone nella mitologia cinese in generale essendo l’incarnazione del concetto di yang, lo spirito fecondo e creatore maschile, ed avendo, in quanto tale, un significato simile al genius, lo spirito della famiglia dell’antica religione romana.

Una leggenda racconta che un anno la terra venne colpita da una grande siccità e solo l’intervento del drago, che per compassione fece piovere, salvò molte persone da una morte certa dovuta alla siccità ed alla conseguente carenza di cibo. L’imperatore di Giada (la divinità suprema del Taoismo) imprigionò il drago in una montagna e disse che non lo avrebbe liberato finché non fossero fiorite pepite d’oro ma fu ingannato dagli uomini che, notato che la soia tostata assomigliava a piccole pepite d’oro, ne tostarono in grandissime quantità fino a che, il secondo giorno del secondo mese il drago fu finalmente liberato. Un’altra versione della leggenda narra invece che, dato che non pioveva da molto tempo, l’Imperatore di Giada ordinò al giovane drago nel Mare Orientale di far piovere ma quest’ultimo era impegnato a giocare nell’acqua e non voleva uscire. Un ragazzo, dopo aver attraversato innumerevoli prove e difficoltà, alla fine trovò un modo per sottomettere il drago e lo fece uscire con successo dall’acqua in modo che potesse far piovere. Qualunque sia l’origine della festività ogni anno si cerca la benedizione del drago per un raccolto buono e fortunato.

Ecco alcune cose che sarebbe bene fare in questa giornata:

1. Mangia il cibo del drago e mostra la sua potenza. Durante Lóng tái tóu, alcuni cibi vengono chiamati come parti del corpo del drago; così i noodles diventano barba di drago, i ravioli orecchie di drago, gli involtini scaglie di drago ed i pancake pelle di drago.

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2. Mangia “soia fritta”: i fagioli dorati sbocciano, le benedizioni arrivano. In realtà la soia fritta legata alla tradizione oggi è stata largamente soppiantata dai pop corn.

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3. Taglia i capelli. Sin dai tempi antichi esiste l’usanza di radere la testa dei bambini in questo giorno (“radere la testa del drago” o “radere la testa felice”) al fine di benedirli e propiziare loro successo futuro. La rasatura dei capelli ha anche il significato di sbarazzarsi del vecchio ed accogliere il nuovo. Molti credono che andare dal barbiere in questo giorno tolga la sfortuna, mentre altri credono che tagliarsi i capelli durante il primo mese del calendario lunare porti sfortuna tanto che, un tempo, era tradizione fare la fila fuori dai barbieri il giorno di Lóng tái tóu, dopo aver evitato di tagliarsi i capelli nel mese precedente. Il posto migliore per fare affari in questa giornata, quindi, è ovviamente il barbiere!

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4. Poni il cibo della casa nel mezzo dei recinti.
Uno dei proverbi più popolari della Festa di Lóng tái tóu, ampiamente diffuso nella Cina settentrionale, dice: “il drago alza la testa, il grande magazzino è pieno, il piccolo magazzino scorre” e pone le basi di un’altra tradizione tipica di questa festa, sempre più in disuso. Le persone raccolgono la cenere dal fondo delle stufe e, in casa o nel cortile, la usano per disegnare dei cerchi che rappresentano silos; a questo punto il cibo viene posto nel mezzo dei cerchi sparso nelle vicinanze a simboleggiare il grande raccolto dell’anno.

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5. Partecipa alla Cerimonia di apertura della penna. Purtroppo anche questa è un’usanza ormai in disuso. Anticamente, in questo giorno, i bambini venivano vestiti a festa e veniva loro regalata una penna con cui scrivere per la prima volta. Con questa cerimonia i genitori speravano che i figli crescessero colti e intelligenti, in quanto la calligrafia era il primo passo dell’istruzione.
 

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LA VARIANTE DI LÜNEBURG di Paolo Maurensig

Ho iniziato a leggere questo libro un pochino prevenuta, devo ammetterlo, perché troppo mi rimandava la mente all’amatissima “Novella degli scacchi”, l’ultimo racconto scritto da Stefan Zweig prima del suo suicidio. Moltissimi, infatti, sono i richiami e le similitudini, a parte, naturalmente il gioco degli scacchi in sé. Il libro, che comincia con la morte di un ricco imprenditore austriaco e famoso maestro di scacchi, è scritto bene, con un linguaggio ricercato, accurato ed elegante; l’autore costruisce la storia di una vendetta affidando a due voci narranti che si alternano, tra fleshback e ritorni, il filo rosso che conduce il lettore, in un percorso a ritroso, dall’atto finale alle cause che lo hanno generato.

La lettura mi ha dato conferma dei miei dubbi iniziali; in totale ho trovato questo libro al contempo bello, in quanto ben scritto, e molto furbo, in quanto perfettamente “costruito”. A mio modesto parere, infatti, l’autore “ricalca”, perché si tratta di più che semplice ispirazione, gli scritti di grandi letterati miteleuropei quali appunto Zweig ma anche Bernhard con il suo Soccombente  (le variazioni Goldberg di Bach) e forse anche un pochino di Marai e del suo “Le braci ” nel quale l’acredine di una vecchia amicizia rimane ardente come brace di un fuoco non del tutto spento nel corso degli anni.

Maurensig attinge a piene mani, prendendo spunti di contenuti e stile, ed  aggiunge il tema dell’Olocausto creando un connubio perfetto per trama e svolgimento anche senza riuscire a far nascere in me una reale empatia: la differenza tra il genio creatore ed il bravo esecutore, insomma, un po’ come in tutte le arti. In totale se avessi letto questo libro vent’anni fa ne sarei rimasta entusiasta, e, forse, è enche questo il bello di invecchiare.

LA SCOMPARSA DI MAJORANA di Leonardo Sciascia

È possibile, leggendo un saggio,  percepire la suspance ed il phatos di un romanzo giallo o sentirsi come quando, tanti anni prima, si era gustato Il mistero di Marie Roget, bellissimo racconto di Edgar Allan Poe, in cui lo scrittore, partendo da un cruento fatto di cronaca e basandosi esclusivamente sulle notizie trovate sui giornali dell’epoca, tenta di risolvere il caso in modo che la verità letteraria possa indicare la via alla verità giudiziaria? Lo è se il saggio è stato scritto da Leonardo Sciascia, “poliziotto di Dio”, come è stato definito dall’amico Gesualdo Bufalino; lo è se si tiene per le mani un testo che ha la forza dirompente della ricerca della verità dei fatti in contrapposizione alle sovrastrutture sociali che hanno determinato la verità storica in un ibrido, sempre perfettamente equilibrato, tra giallo, inchiesta, saggio sociale e riflessione filosofica.

La vicenda è nota: Ettore Majorana ha 32 anni e da pochi mesi è stato nominato professore di Fisica teorica per meriti eccezionali presso l’Università di Napoli. Il 25 marzo del 1938, dopo aver inviato una lettera al direttore del suo istituto, averne lasciata un’altra per la famiglia, prelevato una somma considerevole di denaro e preso il passaporto, si imbarca sul piroscafo che fa servizio da Napoli a Palermo e da quel momento in poi, a parte un’altra lettera ricevuta dal direttore, di lui non si hanno più tracce certe. La deduzione degli inquirenti, in base al contenuto delle lettere, è che il giovane sia scomparso con propositi suicidi, probabilmente a causa di uno stato di follia, e a nulla valgono le richieste di indagini più approfondite da parte della famiglia e di Enrico Fermi  (che tuttavia, essendo sposato con un’ebrea, a dicembre, dopo aver ritirato il Nobel, emigra negli Stati Uniti ).

Sciascia, rispolverando documenti d’archivio ed intervistatando persone che hanno o potrebbero aver incontrato Majorana, svolge un’indagine investigativa ricostruendo la sua versione di verità non solo dipingendo la figura dello scienzato ma, mi è parso, quasi cercando di immedesimarsi profondamente in lui, nella sua psiche e nel suo animo inquieto. Un giovane siciliano dalla mente brillante, capace fin da bambino di svolgere mentalmente, in pochi secondi, calcoli complicatissimi, giocatore di scacchi, “il più grande fisico teorico dei nostri tempi che deve essere annoverato fra la ristrettissima cerchia dei geni, accanto a Galilei e Newton”, come lo descrisse lo stesso Fermi. Majorana,  inizialmente iscrittosi ad ingegneria passa a fisica, nel gruppo dei “Ragazzi di via Panisperna” e si laurea nel 1929 con una tesi sulla teoria quantistica dei nuclei radioattivi; sempre piuttosto schivo, più incline al lavoro solitario che a quello di gruppo, modesto, critico, tanto da risultare ruvido, ma anche autocritico, nel 1933 si reca a Lipsia ove conosce e lavora con Werner Heisenberg, con il quale instaura un ottimo rapporto dissertando di scienza e di filosofia, incontro che rappresenta probabilmente per lui una svolta importante.

E mentre ci racconta il personaggio, Sascia narra anche la sua evoluzione in uomo afflitto da gastrite, che, tra il ’34 e il ’37 diviene sempre più chiuso, schivo, forse un po’ misantropo, meno incline a pubblicare e condividere; anni nei quali, sempre più lontano dalla vita sociale, approfondisce il suo interesse per temi filosofici ed in particolare per l’opera di Schopenhauer. La risposta a questa chiusura l’autore la trova nella “scelta”; Ettore ha compreso, prima di tutti gli altri, a cosa porteranno gli studi che stanno conducendo e sceglie, consapevolmente, di non voler contribuire a quella che sarà la scoperta scientifica più terribile, per l’impiego che ne verrà fatto, del ventesimo secolo. Una scelta morale dettata dell’etica e che porta ad una vita diversa, all’abbandono di una sicura fama in cambio di un mondo di pace, isolamento e riflessione;  il “gran rifiuto” che conduce alla libertà. E come può un tale genio, non riuscire ad approntare una messa in scena capace di nasconderlo per sempre agli occhi del mondo in perfetto parallelismo con Il fu Mattia Pascal di Pirandello, scrittore da lui molto amato?

«Chi, sia pure sommariamente, conosce la storia dell’atomica, della bomba atomica, è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero»

Sciascia non affermò mai di avere raccontato la verità su Ettore Majorana e molti lo accusarono di aver contibuito, con questo suo libro, ad allontanare la letteratura dalla scienza. Può essere, quello che posso affermare è che a me, di sicuro, piace pensare che sia andata proprio così. Alla fine non è anche questo il bello della letteratura: poter immaginare e raccontare una speranza per l’essere umano?

FUGA NELLE TENEBRE di Arthur Schnitzler

Quale potrebbe essere, per ciascuno di noi, il percorso capace di trasformare lievi depressioni,  una vena di ipocondria, piccole manie ossessive-compulsive in veri e propri stati di follia? Viene da chiederselo leggendo Fuga nelle tenebre nel quale Schnitzler, con grande abilità ed utilizzando l’artificio narrativo del monologo interiore, ripercorre, in un crescendo angustiante, l’evoluzione dell’ossessione di Robert e delle tragiche conseguenze da essa derivanti.

L’ossessione del protagonista, che inizialmente appare come il germe di un seme che si manifesta attraverso piccole paure e segnali quali il tremare di una palpebra, lentamente si sviluppa ed evolve prendendo forma di idee, immagini e convinzioni persistenti e via via sempre più indipendenti dalla sua volontà e dai tentativi di allontanarle. E così attecchisce l’idea paranoica ed il subconscio prende il sopravvento ed annienta tutto ciò che è raziocinio e coscienza facendo perdere a Robert la consapevolezza della propria identità.

La grande Vienna di inizio novecento a fare da sottofondo con la sua ricchezza culturale ed artistica ed una scrittura avvincente  che attanaglia in un crescendo a volte soffocante ed opprimente.

Un’ultima riflessione. Non ho amato il protagonista ed ho provato per lui pietà ma non compassione: l’ho trovato indolente, superficiale, fondamentalmente anaffettivo, forse non con il fratello ma certo con le donne della sua vita, incapace di empatia e concentrato esclusivamente su se stesso, una disponibilità economica che gli consente di non dover pensare alla propria sopravvivenza e di indulgere pigramente in pensieri egocentrici.

“La mia esistenza era segnata fin dall’inizio? Oppure ho avuto qualche volta la scelta fra debolezza e forza, salute e malattia, chiarezza e confusione? Ma poi era già tutto deciso? No. All’improvviso seppe con certezza di avere tutt’ora la possibilità di una scelta; ma certo non più per molto…”

Ecco, io credo che, contrariamente a molti che scelta non hanno, per Robert non sia così e che quello che lo porta, in ultimo, a varcare la soglia della follia sia proprio la scelta di continuare ad indulgere esclusivamente nel pensiero di sé.

GUERRA E PACE Lev Tolstoj

Caro Lev,
ho appena terminato di ascoltare il tuo capolavoro dalla voce di un ottimo narratore, Moro Silo. E così siamo a tre, due letture ed un ascolto, non puoi dirmi che non ti ho dato tutta la mia attenzione.

Sai, a me piace molto scrivere recensioni relative a ciò che leggo ma, nel tuo caso, è davvero impossibile: sono stati scritti fiumi di parole da gente ben più colta ed esperta di me su questo argomento e, per quanto riguarda la trama, non ci crederai, oggi esistono sistemi rapidissimi dai nomi assurdi tipo Wikipedia che ti raccontano, in circa due pagine, quello che tu hai impiegato otto anni a scrivere in circa duemila. Quindi opto per questa epistola per esprimerti le mie impressioni e perplessità, almeno, se dirò qualche corbelleria, rimarrà tra noi e non sarò assoggettata a fustigazione.

In realtà “Guerra e pace” lo avevo letto la prima volta intorno ai 18 anni o, almeno, ne ero fermamente convinta fino alla seconda rilettura; ora credo di poter affermare che allora, con quella scarsa onestà intellettuale di cui ero dotata in età adolescenziale, non “lessi” proprio tutto il libro, ma saltellai allegramente tra le righe degli immensi volumi selezionando le parti a me più affini, che, con il senno di poi, suppongo non furono moltissime.


Ricordo che allora pensai che di pace, in tutte quelle righe, ce ne fosse davvero poca mentre ora mi sento ti interpretare il tuo titolo in maniera completamente diversa convinta che non si riferisca soltanto agli eventi bellici descritti ed ai periodi storici di intervallo tra gli stessi ma anche al complesso percorso di alcuni personaggi, primi tra tutti Pierre, Andrei e, a suo modo Natascia, attraversati da colossali conflitti interiori. Si, è vero, in quest’ottica, mi sei apparso molto più “umano” anche tu.


Mi sono immersa nel tuo testo con dedizione assoluta e grande costanza e l’ho gustato appieno, senza lasciarmi spaventare dai nomi, soprannomi, patronimici di voi russi che sembrano fatti apposta per confondere le idee. Ho adorato il tuo linguaggio: solenne nelle narrazioni delle battaglie, suggestivo nella descrizione dei paesaggi ed estremamente profondo nelle riflessioni dei personaggi e sono ora convinta che gli storici possano descrivere gli eventi ma che tu sia stato capace di costruire un romanzo da vivere aprendo una porta al lettore e rendendolo partecipe in prima persona di quegli stessi eventi.


Avrei solo due piccoli appunti da farti:
1) “L’epilogo parte seconda”, interamente dedicato alla filosofia della storia con sconfinamenti nella teologia, nella filosofia del diritto e nella cosmologia era davvero necessario? Stiamo parlando di una sessantina di pagine caro, mica bazzecole! Ho trovato il tuo accanimento ossessivo e ripetitivo e posso affermare che hai messo a durissima prova la mia pazienza tentandomi a riprendere l’abitudine adolescenziale del “salto a piedi pari”.
2) Non è che sei un filo misogino? Nulla da dire sulla descrizione, dipingi personaggi femminili talmente reali che, a volte, ti sembra di vederli seduti accanto a te durante la lettura, però, diciamocela tutta, le tue donne sono terribili e fanno spesso fini raccapriccianti; vero è che suicidarsi non è forse il massimo, ma anche diventare grassa e sciatta ed avere come unico scopo nella vita quello di allattare figli ed attendere che il marito ritorni non mi sembra il massimo dell’esaltazione…


Senza offesa, infine, non ho colto, attraverso i tuoi personaggi, come già mi era successo leggendo altri tuoi libri (Anna Karenina compreso), la viscerale passione che anima quelli descritti dal buon Dostoevskij: è sempre un po’ come se tu guardassi anche la parte più intima dell’uomo in modo distaccato e quindi, pur vedendo realmente le persone attraverso i tuoi occhi non ho sentito nello stomaco il loro tormento. Non prendertela, pertanto, se Fëdor rimane ancora, e sempre, il mio preferito.

SUVASHUN di Simin Dāneshvar

Nota: Suvahun è  stato scritto nel 1969 da Simin Dāneshvar considerata la prima grande romanziera Iraniana. È uno dei più venduti romanzi persiani, ristampato sedici volte e tradotto in molte lingue.

Vi capita mai di leggere un libro e di sentire in voi, come in assonanza alle parole scritte, una particolare colonna sonora? A me è  successo, leggendo Suvashun, di galleggiare tra il testo, splendidamente scritto, e le parole de “La cura” di Franco Battiato; perché Zari, nobildonna di Shiraz, e voce narrante, raccoglie in sé tutto l’amore, la dedizione, il valore della cura nei confronti dell’amato e dei figli.

Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare

I protagonisti di Suvashun sono molti, in realtà. Protagonisti sono infatti la Storia con l’occupazione, durante la seconda guerra mondiale, dell’Iran, inizialmente dichiaratosi neutrale, da parte delle forze militari inglesi e russe allo scopo di impedire alla Germania nazista di impossessarsi delle risorse petrolifere del Paese; l’amatissimo marito di Zari, Yusuf, proprietario terriero ricco ma, al contempo, giusto e generoso, che resiste agli occupanti in favore del suo popolo e combatte senza ipocrisia contro la corruzione e la sete di potere di alcuni suoi connazionali, tra i quali il fratello; il piccolo e coraggioso figlio di Zari e Yusuf e le vivaci gemelle; il nipote, la cognata, il Governatore e mille altri personaggi che la scrittrice utilizza per dipingere la società Iraniana dell’epoca con tutte le sue contraddizioni, attirata e respinta dagli opposti estremismi della propria cultura e di quella occidentale.


Tra tutti Zari resta, per me, la grande protagonista: una donna moderna, colta, che condivide le idee del marito e si emancipa custodendo le proprie tradizioni, la propria storia, la propria femminilità, mai abdicata, con una determinazione che non la priva di grazia e dolcezza.

Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza
Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza

Zari teme, mai per se stessa, ma sempre per coloro che ama. Per questo è dilaniata da un terribile dilemma: sottomettersi e perdere le proprie libertà ed identità o ribellarsi e soccombere? Zari sa che la scelta di Yusuf è  quella più giusta per il suo uomo e per il suo Paese ma, oltre a considerare la violenza come la negazione della creazione stessa, è spaventata al pensiero che prendere una posizione politica possa distruggere la sua famiglia. E così prosegue, senza impedire nulla ma non incoraggiando il marito e sentendosi perennemente inadeguata, nella sua vita di cura e assistenza e mediando con  l’innato istinto di moderazione che la caratterizza.

Con un’immagine estremamente poetica del libro, Zari, come l’uomo che riempie le fontane facendo girare con il piede la ruota dell’acqua per tutta la giornata in modo instancabile, fa girare, con la propria esistenza, la ruota che porta sostegno vitale alla sua famiglia senza poter far null’altro per sé che proteggere, tra fontanelle, giochi di bimbi, fiori e soprusi ai quali non trova il coraggio di ribellarsi. E i soprusi da parte di suoi connazionali sono quelli più gravi e difficili da accettare perché emblematici di un mondo che, non sufficientemente coeso, lascia spazio al propagarsi di forze esterne e distruttive. Zari vede il suo Paese andare in pezzi e non può accettare che lo stesso accada alla sua famiglia, il suo unico e vero universo.

Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare

Ma contro il male l’amore non basta e, quando in un attimo, il mondo di Zari crollerà, quando il suo microcosmo  sarà devastato da forze vigliacche ed incontenibili lei, dopo un iniziale spaesamento simile al delirio, troverà il coraggio, nonostante i figli bambini ed il futuro che porta in grembo, di restituire il colpo sfidando l’ingiustizia di una Storia che tutto distrugge.

” L’umanità è una storia e può divenire qualsiasi storia: dolce, amara, triste … una storia eroica. Il corpo umano è fragile, ma nessuna forza a questo mondo eguaglia la sua forza spirituale, a patto che ne abbia la volontà e la consapevolezza”

Per approfondire:
https://youtu.be/WspLPNyQcQs
https://rivistatradurre.it/suvashun-una-storia-persiana-e-forse-anche-un-po-italiana/

THE LOOK OF LOVE

La giornata è calda e assolata, profuma già di primavera. Sto facendo i mestieri ascoltando musica e, d’un tratto, mi  ritrovo nella palestra della mia scuola elementare, presso le suore Marcelline. Ho otto o nove anni, non ne sono certa, e sto per accingermi ad esibirmi nel mio primo saggio di ginnastica a corpo libero.

Ci sono diversi gruppi, naturalmente, e due hanno già concluso le loro performances. Per prime hanno brillato come astri poche bimbe snelle ed estremamente aggraziate che, apparentemente senza alcuna fatica, si sono librate nell’aria, tra salti e capriole, hanno eseguito ruote come fossero nobili pavoni e, sorridenti, si sono flesse armoniosamente in sincrono  creando figure meravigliose ed affascinanti.

Nel secondo gruppo si sono esibite quasi tutte le altre bambine; hanno eseguito ogni esercizio con grazia discreta, precise, coordinate, magari non superlative, per altri, ma fantastiche ai miei occhi.

E poi ci siamo noi, quattro esserini ai quali la natura non ha regalato articolazioni particolarmente flessibili e la cui armoniosità o non esisterà mai o non è ancora stata scoperta; costumini colorati a evidenziare gambette tonde, i nastri ed i cerchi nelle mani che tremano talmente da farli apparire dotati di vita propria. Il terrore nel cuore, terrore puro; la consapevolezza di non essere all’altezza, l’umiliazione del confronto, la timidezza che fa balzare il cuore in gola e sentire uno strano brusio nelle orecchie. E poi questa musica: tocca a noi. Scoordinate, sudate, i visi paonazzi; pochi esercizi a terra, perché di sfidare la forza di gravità proprio non se ne parla, gli occhi bassi per non dover osservare l’imbarazzo in quelli altrui.

Ed ecco che, invece, cerco gli occhi della mia mamma e lei mi sorride tanto che, appena terminato, tra una crisi di pianto che sta per esplodere come un temporale estivo ed un affanno che mi fa sentire come immersa in un lago di piombo corro tra le sue braccia. “Non siamo tutti uguali”, mi sussurra, “ognuno ha doti diverse ma l’importante è provarci e fare sempre del proprio meglio. Sei stata brava”. Le sorrido e mi sento leggera come una piuma.


Ritorno alla realtà e penso che…


You’ve got the look of love
It’s in your eyes
A look that time can’t disgui
se

SOGNI DI SOGNI di Antonio Tabucchi

Questo gioiellino in 86 pagine me lo regalò una cara amica al termine della nostra convivenza in un minuscolo appartamento Milanese. Appena laureate, i primi anni di lavoro, pochi i soldi e moltissimi gli entusiasmi. Trascorrevamo le serate a mangiare e chiacchierare, scambiandoci libri ed impressioni sulla vita. Che dire? E’ li, sul comodino, e ogni tanto, come questa sera, mi concedo un piccolo sogno tra quelli di Dedalo, Ovidio, Apuleio, Cecco Angiolieri, Villon, Rabelais, Caravaggio, Goya, Coleridge, Leopardi, Collodi, Stevenson, Rimbaud, Čechov, Debussy, Toulouse-Lautrec, Pessoa, Majakovskij, García Lorca, Freud.

E sorrido.