Suggestioni

C’est vraiment un lieu délicieux ce lac d’Orta. A l’entour, des rives à la fois sauvages et cultivées: le monde que le voyageur a vu, se retrouve en petit, modeste et pur, et son âme reposée le convie à rester là, car un charme poétique et melodieux l’entoure de toutes les harmonies, et réveille toutes idées. C’est à la fois un cloître et la vie. (Honoré de Balzac)

THE LOOK OF LOVE

La giornata è calda e assolata, profuma già di primavera. Sto facendo i mestieri ascoltando musica e, d’un tratto, mi  ritrovo nella palestra della mia scuola elementare, presso le suore Marcelline. Ho otto o nove anni, non ne sono certa, e sto per accingermi ad esibirmi nel mio primo saggio di ginnastica a corpo libero.

Ci sono diversi gruppi, naturalmente, e due hanno già concluso le loro performances. Per prime hanno brillato come astri poche bimbe snelle ed estremamente aggraziate che, apparentemente senza alcuna fatica, si sono librate nell’aria, tra salti e capriole, hanno eseguito ruote come fossero nobili pavoni e, sorridenti, si sono flesse armoniosamente in sincrono  creando figure meravigliose ed affascinanti.

Nel secondo gruppo si sono esibite quasi tutte le altre bambine; hanno eseguito ogni esercizio con grazia discreta, precise, coordinate, magari non superlative, per altri, ma fantastiche ai miei occhi.

E poi ci siamo noi, quattro esserini ai quali la natura non ha regalato articolazioni particolarmente flessibili e la cui armoniosità o non esisterà mai o non è ancora stata scoperta; costumini colorati a evidenziare gambette tonde, i nastri ed i cerchi nelle mani che tremano talmente da farli apparire dotati di vita propria. Il terrore nel cuore, terrore puro; la consapevolezza di non essere all’altezza, l’umiliazione del confronto, la timidezza che fa balzare il cuore in gola e sentire uno strano brusio nelle orecchie. E poi questa musica: tocca a noi. Scoordinate, sudate, i visi paonazzi; pochi esercizi a terra, perché di sfidare la forza di gravità proprio non se ne parla, gli occhi bassi per non dover osservare l’imbarazzo in quelli altrui.

Ed ecco che, invece, cerco gli occhi della mia mamma e lei mi sorride tanto che, appena terminato, tra una crisi di pianto che sta per esplodere come un temporale estivo ed un affanno che mi fa sentire come immersa in un lago di piombo corro tra le sue braccia. “Non siamo tutti uguali”, mi sussurra, “ognuno ha doti diverse ma l’importante è provarci e fare sempre del proprio meglio. Sei stata brava”. Le sorrido e mi sento leggera come una piuma.


Ritorno alla realtà e penso che…


You’ve got the look of love
It’s in your eyes
A look that time can’t disgui
se

Dodici passi

Molti anni fa conobbi un uomo, un ex alcolista anche, se a suo dire, e non ho nulla per cui dubitare di ciò, non si è mai ex, si resta dipendenti lottando ogni giorno per vincere la battaglia. Credo veramente sia così; le dipendenze fisiche, affettive, mentali non si cancellano, si combattono, a piccoli passi, giorno dopo giorno. Nel mio disequilibrato equilibrio penso di avere diverse forme di tendenza alla dipendenza ed alcuni comportamenti ossessivi-compulsivi per cui dedico ogni giorno un attimo di riflessione a queste mie debolezze per imparare ad accettarle, ove possibile, ed a combatterle, quando utile. Quell’uomo era molto intelligente, colto, interessante; credevo di aver instaurato con lui un rapporto di amicizia e forse, nonostante le nostre reciproche debolezze, è stato veramente così e ci siamo voluti bene ma un giorno ho sentito che la fiducia che stavo riponendo in lui era in pericolo e, piano piano, ci siamo allontanati, fino a perderci. Oggi, che più cose ho compreso di me stessa, mi piacerebbe che lui sapesse che conservo ancora quella scatolina con inciso 12 e la croce che, sembrerà assurdo, rischiai di perdere in moto e presi al volo proprio il giorno in cui mi comunicò che gli avevano trovato una brutta malattia ma, soprattutto,  il libretto degli alcolisti anonimi dei dodici passi che, anche se non sono un’alcolista, leggo spesso per riflettere e per riuscire ad affrontare, giorno dopo giorno, tutte le mie debolezze. Oggi mi piacerebbe che lui sapesse che il passaggio nella vita di un altro essere umano non è mai invano.

Foto di Лечение наркомании da Pixabay

Solo un sogno

Una voce calda, a portare luce in giornate vuote. Vaporosi attimi di abbandono e di gioia. Istanti rubati, a placare la sete. Pensieri dispensatori di sorrisi. Carezze, a farti sentire finalmente lontana dal mondo. Curiosità, di mente e di cuore. Ma era solo un sogno ed i sogni non avvisano quando decidono che è ora di svegliarti né, tanto meno, chiedono il tuo parere.

Il rumore del vuoto

Davvero non lo senti il rumore del vuoto? Le urla di quei visi dipinti, di quei rapporti stanchi, costruiti, assemblati per utilità e mantenuti in vita per la paura di lasciarli andare. Dare e avere, prendere, usare, consumare, buttare. I sorrisi forzati, le attenzioni interessate, le relazioni falsate da mille cose al di fuori di te. Superficie che soffoca ed affoga senza riuscire a raggiungere la salvezza della profondità. Davvero non lo senti il vuoto che urla? Uno, nessuno, centomila, maschere, finzioni ti girano intorno senza riempire mai. Davvero non le senti le urla del vuoto dentro di te?

Chi si loda si imbroda

Così diceva mia nonna Gisa che, comunque sia, si lodava spesso. Al contrario mamma e papà non hanno mai avuto la tendenza a vantarsi dei propri meriti, anzi, ed hanno cresciuto noi allo stesso modo. Senso del dovere e della responsabilità; così, quando prendevamo un bel voto alle superiori, papà non ci lodava ma ci diceva, sorridendo, “hai fatto LA META’ del tuo dovere” e quando, più avanti, superavo un esame all’università lui esclamava “Brava!” ma seguiva subito un “…a quando il prossimo”? Mamma è sempre stata più gratificante, da questo punto di vista, i suoi abbracci erano il caldo riconoscimento di un risultato ottenuto. Così, tra un’educazione in cui il proprio dovere ed il rispetto di pochi ma fondamentali principi di vita erano base imprescindibile e la mia indole sono cresciuta, in ambito lavorativo, e forse non solo, precisa, puntigliosa, diciamo pure rompiscatole, sempre con un dubbio da approfondire e risolvere, testarda ed ahimè, onesta, caratteristica che in ambito lavorativo non sempre si volge a proprio favore. Sono sempre stata aiutata molto, nel mio lavoro, da una grande memoria, dalla capacità innata di schematizzare e catalogare, da una naturale propensione all’utilizzo di supporti informatici e, soprattutto, dal non aver mai perso la voglia di studiare. L’unico vero problema è che per me quello che faccio non è mai fatto abbastanza bene, è sempre migliorabile, ed ho dovuto darmi regole per definire tempi e metodi per evitare di fossilizzarmi su particolari che, data la mia natura, tenderebbero a farmi perdere di vista l’importanza dell’insieme. Questi mesi sono stati pesantissimi, ho dovuto ingoiare rospi ed orgoglio, mi sono intestardita e non ho mollato l’osso, ho fatto tutto quello che secondo me era utile ed indispensabile, ho fatto anche di più ed ho raggiunto un ottimo risultato per la mia azienda ma, soprattutto, per me stessa ed ho avuto un riconoscimento della mia professionalità e di tanti anni di studio ed impegno. Per cui perdonatemi: questa volta ho proprio voglia di imbrodarmi perché sono stata brava e sono orgogliosa di me stessa. Ma dato che non amo il brodo mi inzupperò…

Foto di Mogens Petersen da Pixabay

La piscina

La guardo. E’ azzurra, limpida promessa di pace. Silenzio. Non c’è nessuno oltre a me. Cuffia ed occhialini; l’acqua ha una temperatura perfetta e mi accoglie avvolgendomi in una calma profonda. Mi immergo, butto fuori tutta l’aria, scendo fino a toccare il fondo, e li mi fermo un po’, sdraiata, ad ascoltare il silenzio. Non so da dove nasca la mia affinità con questo elemento, ma, certo, qui mi sento perfettamente a mio agio, in acqua trovo quiete e ristoro, il giusto equilibrio tra il corpo ed i pensieri. Non so neppure perché il percorso per rielaborare i miei dolori sia sempre tanto lungo ed articolato; forse, come le gioie e le passioni, vivo anche le sofferenze in modo estremo, forse metto talmente tanto di me nelle cose che poi ho bisogno di altrettanto tempo per lenire le ferite, ritrovarmi, capire. Sono eccessiva, questo è certo, nel bene e nel male. Ecco perché vengo qui, per equilibrare gli eccessi, per lasciare che questo stato di benessere e leggerezza si diffonda, lentamente, dai muscoli alla mente in un ambiente in cui tutto è ovattato, sobrio, a mio sentire elegante, un luogo nel quale la mia mente, abituata a poggiare saldamente i piedi a terra, si libera dai vincoli e crede davvero di volare, un mondo in cui, più gli occhialini si appannano, e più si dipanano i pensieri che diventano nitidi, limpidi come l’elemento che mi circonda, trasportandomi in una dimensione diversa, quasi eterea. Comincio a nuotare, una vasca a rana, una a stile libero. E’ come se, per un po’ di tempo, quell’acqua, il movimento, facessero da barriera tra me e tutto il resto, rigenerandomi; non esiste null’altro che il mio corpo, in pace con la mente. Aspetto il “click”, così definisco quel momento in cui, dopo le prime vasche sempre un po’ in affanno ed in debito d’aria, il mio cervello entra finalmente in sintonia con i polmoni e con gli arti e sento che potrei non fermarmi più. Il “click” arriva, ed è bellissimo; non ho fretta, il respiro è cadenzato, ritmato dal rumore stesso dell’acqua attorno a me. Comincio a sentire i muscoli che si riscaldano, mi allungo nelle bracciate godendo di quella sensazione di leggerezza, lascio che la stanchezza arrivi, piano, regalandomi una sensazione di pienezza e di appagamento. Spesso mi domando che ho di sbagliato, come faccio a valutare in modo tanto errato persone ed avvenimenti, perché devo vivere ogni emozione in modo così viscerale, metterci tanto tempo a dimenticare quando tante persone, attorno a me, riescono semplicemente a passare oltre; deve esserci qualche cosa che mi sfugge, brevi momenti di gioia si alternano a malinconie che paiono senza limiti. Ma qui tutto viene lavato, purificato, ricondotto ad un’altra dimensione, quasi disinfettato dal cloro ed i pensieri scuri si schiariscono, pian piano…sorridere nuotando? Si, si può. E poi mi costa meno dello psicologo.

Così

Correndo immobile annodo pensieri.

Ho una mano grande, stretta a pugno, una piccola, il palmo alzato, a raccogliere pioggia.

Ho un occhio bianco, ho un occhio nero.

Accolgo respiri in apnea osservando il fiume  seguire lentamente il suo corso.

La strada per la libertà

Loreta Asanavičiūtė era una ragazza da far innamorare. Aveva capelli neri, leggermente ondulati, di lunghezza media, con la riga a sinistra. Occhi scuri, sopracciglia folte e dritte e una bocca che non passava inosservata, con labbra piene, ben definite. Era minuta, con un collo lungo e sottile. La cosa più toccante era il suo sguardo serio… Doveva avere un carattere tranquillo, timido e introverso.
Da Anime Baltiche di Jan Brokken

Loreta era nata il 22 aprile del 1967 a Vilnius a quel tempo capitale della Repubblica Socialista Sovietica di Lituania.
Nel 1944, al termine del conflitto mondiale, i Paesi Baltici persero la propria indipendenza ed entrarono a far parte stabilmente dell’Unione Sovietica dato che quest’ultima sostenne che il Patto Molotov-Ribbentrop per la loro annessione fosse già stato stipulato con la Germania nazista prima dell’inizio delle ostilità e negando, pertanto, che ci fosse stata un’occupazione dei Baltici. Gli Stati Uniti e la maggior parte degli stati vincitori non riconobbero mai all’URSS l’annessione, tuttavia non fecero nulla per opporvisi limitandosi a mantenere presenti nei territori occidentali le ambasciate dei tre Paesi.
Il 23 agosto 1989, esatto cinquantenario della firma del patto Molotov-Ribbentrop, Lituania, Lettonia ed Estonia diedero al mondo una colossale dimostrazione di unità: la Via Baltica, Baltijos kelias, concretizzò quello cui gli organizzatori ed il movimento indipendentista Sajūdis stavano lavorando da poco più di un mese. Due milioni di persone, un quarto circa della popolazione delle repubbliche baltiche dell’epoca, scesero per le strade cantando, tenendosi per mano, portando fiori e nastri da lutto sui costumi popolari per commemorare le vittime della repressione. Più di 600 km di una catena ininterrotta di mani unite ad unire le tre capitali, Vilnius, Riga, Tallinn e, tra quelle, anche le mani di Loreta.
Nei mesi di gennaio e febbraio del 1991, a Vilnius, la protesta contro il regime si intensificò e si svolse prevalentemente davanti alla Torre della Televisione che venne occupata allo scopo di diffondere il messaggio libertario. I rivoluzionari erano disarmati. Nella notte tra il 12 e il 13 febbraio, Loreta era di guardia alla torre con due amiche; nella stessa notte Vilnius era occupata dai carri armati inviati da Gorbacëv per reprimere la rivolta. Dinnanzi alla folla pacifica ed in diretta televisiva ininterrotta, il governo sovietico si vide costretto a richiamare i blindati, non prima, tuttavia, di aver lasciato a terra quattordici vittime, tra le quali Loreta. Si racconta che, al suo arrivo in ospedale, ella fece in tempo a porre due semplici e disarmanti domande: “Dottore sopravvivrò? Potrò ancora sposarmi?”. Poi morì. Aveva 23 anni.
Loreta aveva soltanto un anno meno di me; chissà, se non fosse morta in questo mio viaggio avrei potuto incontrarla in un negozio, come guida ad un museo, per strada, con i suoi figli. Avrei potuto incrociarla in un qualsiasi aeroporto, finalmente libera, finalmente Lituana, finalmente Europea. Ci saremmo potute conoscere in un altro viaggio, in un diverso continente ed avrei potuto guardarla negli occhi e vedere il suo orgoglio per aver lottato e contribuito a costruire la sua Nazione nonché a rivendicarne l’appartenenza all’Unione Europea ed alla Nato, baluardi a difesa di quell’indipendenza tanto duramente conquistata la quale, ancora oggi, deve fare i conti con la minacciosa vicinanza della Russia di Putin, che non ha mai nascosto di considerare tuttora i baltici parte della propria “sfera d’influenza”. Avremmo potuto parlare di tante cose, credo. Mi domando, però, cosa avrebbe pensato di partiti sovranisti quali la Lega, il Rassemblement National, l’Alternativa per la Germania o il partito delle Libertà Austriaco che si dichiarano vicini al presidente Putin nelle questioni dei rapporti con la Russia e se non avrebbe guardato con paura all’aumento del consenso di EKRE in Estonia. Chissà se avrebbe condiviso con me l’idea che quella ottusa e cieca parte di Europa che si sta lasciando incantare da una retorica del tutto priva dell’idea di solidarietà e che guarda con occhio accondiscendente, se non addirittura complice, agli innumerevoli episodi di razzismo ed intolleranza dimostra che poco ha davvero imparato dagli orrori del passato e che, in tal modo, sta permettendo a quella stessa retorica di cancellare dal nostro DNA la capacità ed il coraggio di creare una catena di mani a difesa del nostro futuro e della libertà.

Ali

Caro amico,

dopo il nostro logorroico dissertare di Cast Away, come spesso accade, ho continuato a pensare a quella discussione che aveva fatto rinascere in me antichi ricordi; non considerai mai quel film un capolavoro ma ebbi modo di rivederlo proprio nei giorni successivi a quello che, ritengo, sia stato il mio primo vero naufragio e fu stimolo importante per me, come spesso accade in vari periodi della vita con qualche cosa in cui mi imbatto e che mi esorta a nuovi pensieri e riflessioni. Proverò a raccontarti le sensazioni che provai, il percorso che feci; la comunicazione tramite le parole scritte, mi aiuta a riprendere il mio cammino mantenendo il buono conquistato, ed è quasi certamente per me un mezzo per ri-conoscermi e ri-trovarmi.

Rammento che seguii quel film, quasi riflettendomi in uno specchio, rinvenendo nella sua storia, nella musica e nella splendida fotografia una parte di me e, con essa, sollievo per la mia anima. Non so se sia più o meno usuale avvalersi di film o libri per ritrovare parti di sé; forse sono solo percorsi canonici che ciascuno di noi, in un momento o nell’altro della propria vita, si trova a fare, seguendo vie differenti ma comunque sempre al solo scopo di perseguire la propria “guarigione”.

Come accadde per Chuck il mio non fu un dolce ammaraggio ma un vero e proprio schianto, un’improvvisa e devastante crisi esistenziale che, nello stupore generato da ogni evento inatteso, tutto stravolge generando paure, insicurezze, amplificando la percezione delle fragilità, un senso improvviso di mancanza di fiato, il non sentirsi la terra sotto i piedi, la sensazione di aver perso tutto e di dover ricominciare da capo, da soli, senza mezzi e con scarse possibilità. No, non mi trovavo su di un’isola deserta, ma sentivo la necessità di isolarmi dal mondo frenetico che mi circondava, di crearmi la mia capanna, procacciarmi il cibo, che nella vita precedente non era mia priorità cercare; la voglia di vivere nonostante tutto, aggrappandomi alla mia famiglia, unica terra ferma incontrata, ed iniziando un periodo di distacco, introspezione, catarsi, forse purificazione.

Avevo con me una fotografia, non era quella di un uomo al quale volessi o potessi tornare, solo un viso che, dentro di me, non ero ancora pronta a lasciare andare insieme a tutto quello che aveva rappresentato. No, non fu quella lo stimolo per reagire; forse, l’immagine che seguii fu quella della persona che, nonostante tutto, volevo cercare di essere, una donna più libera e consapevole, non legata a schemi prefissati, a logiche di altri, ad un mondo al quale sentivo di non appartenere. Credo che se non avessi avuto alle spalle la mia famiglia ed i miei pochi ma fondamentali amici il mio Wilson avrebbe dovuto essere uno psicoterapeuta ma fui fortunata ed usai a quello scopo la scrittura, il parlare con la “vecchia me” con la quale mi scontravo e dalla quale traevo le mie risorse, buttando sulla carta tutto quello che avevo dentro di affascinante, di mostruoso, di inspiegabile, di angustiante, di fiducioso.

La priorità fu imparare a procacciarmi il cibo: lo sapevo fare, prima, nell’altro mondo, ma in questo era tutto diverso. Ricostruii un’attività parzialmente trascurata, recuperai contatti che pensavo perduti, ricominciai a studiare e a crearmi nuove occasioni ed opportunità.

Poi venne il momento della capanna, ci vuole un posto dove rifugiarsi dal mondo, un luogo tranquillo dove rinchiudersi: questa microscopica casa divenne il mio anelato rifugio.

E poi venne il ritorno del dolore: dopo due anni dallo schianto, quando la mia vita quotidiana apparentemente sembrava cominciare ad avere nuovamente un senso e mi sentivo più forte, arrivò…malvagio e bastardo, ancora peggiore perché inatteso. Una notizia che mi fece ripiombare nel buio e nella disperazione. E seppi cosa fare: non avevo un pattino con cui togliermi un dente che avrebbe potuto portarmi alla morte ma avevo la capacità di recidere in modo drastico quei rapporti che mi stavano facendo ritornare a fondo. Li estirpai. Bruciai la foto. Decisi che quel dolore doveva morire perché io volevo vivere. E quando mi ripresi, perché abbandonare il passato, anche se arreca sofferenza, è comunque un percorso che toglie forze ed energie, decisi che si, era arrivato il momento di riprovare, di far ritorno al mondo che avevo lasciato; io molto diversa, più vecchia fuori ma più giovane e forte dentro, con occhi nuovi e con nuove speranze.

Avevo timore di rimettermi “in mare” ma il destino aveva portato anche a me delle ali su un pezzo di lamiera…poco importa che fossero nere su di un serbatoio giallo, erano proprio ali…e con quelle, lo sapevo, ci potevo provare. Lo so è solo un simbolo: ero una pessima motociclista, ma quella moto fu la mia vela. E rimettendomi in viaggio mi accorsi che il mio Wilson, la me di prima che si sentiva in dovere di vivere in funzione di un altro prima che di se stessa, non c’era più; un distacco doloroso ma fondamentale, perché ormai io ero molto diversa da lei, con sogni novelli, una nuova visione della vita, una diversa consapevolezza, quasi fossi davvero rinata a me stessa. Mi sembrava di aver scoperto la differenza tra “vivere” e “sopravvivere”. Riuscivo a respirare, finalmente, stupendomene tanto a lungo ero rimasta in apnea, e con i respiri giunsero i sorrisi.

Abbandonate le sovrastrutture che non mi appartenevano, sulla mia zattera c’erano ora finalmente solo le cose che mi servivano davvero: gli affetti, la voglia di amare, i libri, la voglia di imparare, la musica, la voglia di sentire, i pastelli colorati, la voglia di gioire, carta e penna, la voglia di scrivere e di comunicare. Erano quelle le cose importanti per me, quelle che volevo portare nella mia nuova vita.

Su quella zattera ho provato brevi ma intensi attimi di gioia, finalmente libera.

Approdai nuovamente ad una terra che mi sembrava ricca e verde, per un attimo credetti di essere a casa ma sbagliavo; ancora smarrimento, un rinnovato dolore. Ma ora io ho la zattera, con le sue belle ali, sulla quale ho caricato una diversa consapevolezza ed un immenso amore per la vita: ho ripreso il mare perché tanto “domani il sole sorgerà ancora, e chissà cosa può portare la marea…