Il portale

Si ritrovò a scrutare la sua immagine riflessa nella vetrina. Nulla di femminile, ormai, in quella figura: la schiena flessa, il viso scarno e marchiato da rughe profonde, il corpo, ammasso di pelle e di ossa, in quei vestiti logori ed informi che la ricoprivano senza donarle calore. L’olezzo che emanava non poteva sentirlo ma lo leggeva nelle smorfie dei passanti: era consapevole di odorare di sporco, di strada, di vino; sapeva di avere il sentore della povertà e della disperazione. Era stata una bella donna, un giorno, quando laureata e con un buon lavoro, aveva scelto di abbandonarlo per dedicarsi a Carlo e ad Elisa, quella piccola creatura fragile nata dal loro amore. C’erano stati giorni felici ed attimi di serenità ma erano tanto lontani da sembrare, a volte, più una fantasia che un ricordo. Un giorno suo marito se ne era andato; non le aveva chiesto la separazione, non le aveva parlato, semplicemente era sparito. Non seppe mai dove fosse andato, se avesse incontrato un’altra donna, se non fosse stato in grado di reggere il peso di quella figlia tanto debole e bisognosa di cure: lui scomparve dalle loro vite insieme al denaro, al suo cuore ed alle speranze. Lei lavorò presso una cooperativa di pulizie per pochi soldi, di giorno e di notte, per mantenere le cure costose a quella figlia, nessun altro con loro, nel bene e nel male. Non fu abbastanza ed Elisa volò in cielo in una mattina di tarda primavera. Ed in quel momento lei si perse come una piccola barca in un oceano agitato: nessuna certezza, cominciò a bere pensando di trovare nell’alcol un conforto alla disperazione incolmabile e smarrendo invece il contatto con la realtà, con le poche persone a lei vicine, perdendo il lavoro ed il rispetto per sé stessa. Nei rari momenti di lucidità pensava ai suoi sogni di ragazza senza capacitarsi di essere divenuta quello che ora era: una senza-tetto, un’anima sola in balia di quella enorme città. C’erano tante persone che si occupavano di dare da mangiare a quelli come lei: individui buoni e caritatevoli che dedicavano parte del loro tempo libero al servizio dei meno fortunati. No, non era difficile trovare un posto per mangiare. Ma dormire, quello si era un problema per tutti ma per le donne in particolare: i dormitori pubblici erano sempre troppo pieni di gente e di pericoli, le stazioni controllate dalla polizia, le metropolitane chiuse con quelle sbarre fredde, che a toccarle veniva voglia di andare in prigione per avere almeno un letto in un posto caldo e sicuro ove distendersi e, finalmente, riposare davvero. Ma nonostante tutto lei non si era mai venduta, non aveva mai rubato, aveva fatto del male, certo, ma solo a sé stessa. E così, ogni notte, cercava un posto nascosto e diverso dove, tra quei cartoni che non abbandonava mai, poteva assopirsi a tratti, mantenendosi vigile, quando il vino bevuto non era abbastanza per farle perdere completamente il controllo. Quella era la notte di Natale e cominciò a nevicare; aveva tanto freddo e necessitava di un posto per ripararsi. Vide tutte quelle persone all’esterno dalla chiesa; entrò, a passi lenti, con grande rispetto. Le luci basse, il profumo d’incenso, le candele che si riflettevano sugli ori delle cornici e degli addobbi, quelle panche di legno, dall’aria sicura. Frammenti di ricordi remoti provenienti da tempi lontani: quel prete che parlava a voce bassa e convinta… “…Fede, speranza, carità…”, …”la Casa del Signore”…”… Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. Si assopì. Poi, d’un tratto, il silenzio ed uno strattone al braccio.


“Esci da qui, devo chiudere”.

“La prego, ho tanto freddo e tanta paura…”

“Vattene barbona, questa è una chiesa, un luogo sacro, non è un posto per dormire!”

Appoggiò la schiena stanca a quel portale ormai chiuso che raccontava tante storie: c’erano un uomo nudo in mezzo alla piazza che regalava i suoi vestiti ai poveri, un cavaliere che smontava dal destriero per porgere il mantello ad un vecchio, una donna che asciugava dei piedi con i propri capelli. Si addormentò e vide, in mezzo a tanta luce, Elisa che le porgeva la mano. Sorrise appena in quel freddo ormai mortale: finalmente sarebbe stata di nuovo libera.

Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. (Luca, 12, 47)

Foto di Anne-Onyme da Pixabay

Natale

Per me quest’anno non è stato negativo. Impegnativo, quello si, scandito da ansie, solitudini, dal tempo, talvolta concentrato ed altre dilatato di mesi strani che, pur restando immobili, sono comunque volati. La fatica maggiore è stata quella di sopportare e gestire la distanza dalla mia famiglia che però non si è mai trasformata in distacco perché quello che è dentro di te non si allontana mai, il dolore più grande quello di vedere così poco la mamma, e, soprattutto, di non poterla stringere a me per farle sentire più forte la gratitudine per il suo grande amore perché, anche a cinquantaquattro anni, proprio come l’acqua di un fiume che non sceglie il suo corso ed il suo destino, ogni gioia ed ogni dolore arrivano a lei il cui sesto senso non è stato minimamente scalfito dall’età e la cui generosità ha sempre abbracciato noi figli infondendo coraggio, fiducia, speranza. Per me quest’anno non è stato negativo perché ho sempre sentito forte l’affetto dei miei fratelli, ho avuto molto vicina un’amica speciale che mi conosce abbastanza per sapere che, quando non sto bene, mi chiudo a riccio e mi lecco le ferite e riesce ad essere presente con delicatezza e solida costanza anche se i nostri “ritmi vitali” sono talvolta così diversi, ho avuto piccoli viaggi e una bella vacanza, attimi di vera gioia che mi hanno regalato una me che credevo dimenticata, sogni, un pezzetto di passato che ha fatto capolino lasciando domande prive di risposte ma che, con mio grande sollievo, ho scoperto essere dentro di me ma di essere capace di non insistere per trattenere. Ho avuto un lavoro con scontri, anche violenti, insoddisfazioni e qualche gratificazione. Ho imparato a conoscermi un po’ di più e a perdonarmi alcuni dei miei limiti. E sono arrivata qui, un pochino più vecchia, un pochino più consapevole con una nuova voglia di addobbare, finalmente, la mia casa ed il mio cuore a Natale.

Il Natale quando arriva arriva

Il Natale quando arriva arriva, si sa, ma io non sono pronta per questo Natale. Sarebbe potuto arrivare a marzo, quando credevo di essere in cima ad una ripidissima salita e pensavo, felice, di cominciare la discesa, senza sapere ancora che sarebbe stata un lancio senza paracadute. Sarebbe potuto arrivare a giugno quando ero protetta dalla rabbia e c’erano il sole, il lago, le montagne ad addobbare le mie giornate. Sarebbe potuto non arrivare proprio, che ne so, saltare un anno, ad esempio, così, tanto per dire. E invece no, pare ormai certo, sta arrivando davvero e io non sono pronta per questo Natale. Non sono pronta perché anche se so di essere al posto giusto non ho voglia di vestire la mia casa a festa, è trascorso troppo poco da quando ho vestito l’altra casa, quella in cui ho perso un pezzo di questo stupido cuore che, con il passare degli anni, diventa sempre più simile ad una palla di vetro invece di diventare un bel cuore d’oro: lucido, freddo e, soprattutto duro. E’ in quella casa che ho lasciato le cose che mi servirebbero per sentirmi pronta: la tovaglia rossa, il tavolino di papà, sogni, il mattarello, promesse, profumo di cannella, il piccolo ficus che non riusciva a crescere mai, lacrime, i quadri di mamma, sorrisi, il frullino a immersione, i barattolini di spezie, attenzioni, la bambina di Banksy sulla parete del soggiorno, parole, le stampe di Crepax con quelle Valentine così sensuali proprio all’ingresso, il comodino della nonna, il cucchiaio di legno, quello speciale, il gelsomino, progetti, libri, il lampadario a forma di lampadina gigante, amore. Il Natale quando arriva arriva, si sa, ma io non sono pronta per questo Natale.

Banksy – Girl with balloon

Solo un panino

Foto di gate74 da Pixabay

Scese dal treno, come al solito ancora assonnata, e si sentì trascinare da quella folla di volti senza espressione, di bocche senza voce, di occhi senza luce. Si domandò a cosa potesse pensare tutta quella gente, a quell’ora del mattino di una giornata di metà dicembre, tra il freddo ed una nebbia capace di riempire le narici di un odore acido e greve. Milano, stazione Garibaldi. Luminarie. Addobbi. Sembianze di festa. Poca gioia sui volti attorno a lei.
Come sempre lo scorse in prossimità del binario, in quel grigio cappotto usurato troppo abbondante, la lunga barba bianca, un vago bagliore negli occhi. Non chiedeva mai nulla, semplicemente stava lì, un sacchetto ai piedi, dondolandosi da una gamba all’altra, un bicchiere di carta in mano, talvolta canticchiando o parlando tra sé e sé o con qualche ombra amica che forse solo lui era in grado di vedere. Ogni mattina lo incrociava, il più delle volte correndo, per raggiungere l’università in tempo; spesso gli passava di fianco, senza neppure vederlo, ogni tanto lasciava scivolare in modo distratto una moneta in quel bicchiere silenzioso, ricevendo sempre in risposta a quel debole tintinnio un grazie caldo e sommesso.
Quel giorno stava per infilare la mano in tasca a cercare il resto del pacchetto di sigarette che non avrebbe dovuto comprare e, con stupore, sentì distintamente una voce, la stessa calda e sommessa di sempre, ma più flebile. “Ho fame”. La sua mente fu attraversata da mille pensieri. “E che te ne fai del resto di un pacchetto di sigarette? E io che sto a dieta…e se poi i soldi li usi per bere…quanti anni avrai…sarai matto…” e tutti questi pensieri si trasformarono, suo malgrado, in parole che non intendeva dire ma che le fuggirono indisciplinate dalle labbra prima ancora che il cervello potesse rielaborarle. “Vuoi venire al bar con me? Mangiamo qualche cosa insieme”.
Una luce, uno sguardo, un sorriso, il solito grazie caldo e sommesso. Gli occhi inespressivi dei passanti divennero attenti, curiosi e latori di mille diverse emozioni vedendoli seduti insieme al tavolino sotto le luci dorate. “Che prendi?”. “Un panino con la mortadella, per favore”. “E basta?”. “Si, grazie. Mi basta”. “E da bere, che vuoi?”. “Un succo di frutta, mi piacerebbe. Lo posso avere?”. Un sorriso nel cuore. Un succo di frutta! “Ma, certo, tutto quello che vuoi!”.
Fecero insieme quella strana colazione, scambiando poche parole e tantissimi sguardi. “La gente pensa che sia matto, perché parlo da solo. Ma io so ascoltare. E so amare. Grazie per non aver avuto paura di me”.


“Grazie a te, davvero hai illuminato la mia giornata”, pensò, ma fu solo capace di dire:

“Devo andare, ora. Ci vediamo presto”.

“Certo, grazie ancora. Come ti chiami?”.

“Lavinia, e tu?”.

“Natale”.