Caro amico,
dopo il nostro logorroico dissertare di Cast Away, come spesso accade, ho continuato a pensare a quella discussione che aveva fatto rinascere in me antichi ricordi; non considerai mai quel film un capolavoro ma ebbi modo di rivederlo proprio nei giorni successivi a quello che, ritengo, sia stato il mio primo vero naufragio e fu stimolo importante per me, come spesso accade in vari periodi della vita con qualche cosa in cui mi imbatto e che mi esorta a nuovi pensieri e riflessioni. Proverò a raccontarti le sensazioni che provai, il percorso che feci; la comunicazione tramite le parole scritte, mi aiuta a riprendere il mio cammino mantenendo il buono conquistato, ed è quasi certamente per me un mezzo per ri-conoscermi e ri-trovarmi.
Rammento che seguii quel film, quasi riflettendomi in uno specchio, rinvenendo nella sua storia, nella musica e nella splendida fotografia una parte di me e, con essa, sollievo per la mia anima. Non so se sia più o meno usuale avvalersi di film o libri per ritrovare parti di sé; forse sono solo percorsi canonici che ciascuno di noi, in un momento o nell’altro della propria vita, si trova a fare, seguendo vie differenti ma comunque sempre al solo scopo di perseguire la propria “guarigione”.
Come accadde per Chuck il mio non fu un dolce ammaraggio ma un vero e proprio schianto, un’improvvisa e devastante crisi esistenziale che, nello stupore generato da ogni evento inatteso, tutto stravolge generando paure, insicurezze, amplificando la percezione delle fragilità, un senso improvviso di mancanza di fiato, il non sentirsi la terra sotto i piedi, la sensazione di aver perso tutto e di dover ricominciare da capo, da soli, senza mezzi e con scarse possibilità. No, non mi trovavo su di un’isola deserta, ma sentivo la necessità di isolarmi dal mondo frenetico che mi circondava, di crearmi la mia capanna, procacciarmi il cibo, che nella vita precedente non era mia priorità cercare; la voglia di vivere nonostante tutto, aggrappandomi alla mia famiglia, unica terra ferma incontrata, ed iniziando un periodo di distacco, introspezione, catarsi, forse purificazione.
Avevo con me una fotografia, non era quella di un uomo al quale volessi o potessi tornare, solo un viso che, dentro di me, non ero ancora pronta a lasciare andare insieme a tutto quello che aveva rappresentato. No, non fu quella lo stimolo per reagire; forse, l’immagine che seguii fu quella della persona che, nonostante tutto, volevo cercare di essere, una donna più libera e consapevole, non legata a schemi prefissati, a logiche di altri, ad un mondo al quale sentivo di non appartenere. Credo che se non avessi avuto alle spalle la mia famiglia ed i miei pochi ma fondamentali amici il mio Wilson avrebbe dovuto essere uno psicoterapeuta ma fui fortunata ed usai a quello scopo la scrittura, il parlare con la “vecchia me” con la quale mi scontravo e dalla quale traevo le mie risorse, buttando sulla carta tutto quello che avevo dentro di affascinante, di mostruoso, di inspiegabile, di angustiante, di fiducioso.
La priorità fu imparare a procacciarmi il cibo: lo sapevo fare, prima, nell’altro mondo, ma in questo era tutto diverso. Ricostruii un’attività parzialmente trascurata, recuperai contatti che pensavo perduti, ricominciai a studiare e a crearmi nuove occasioni ed opportunità.
Poi venne il momento della capanna, ci vuole un posto dove rifugiarsi dal mondo, un luogo tranquillo dove rinchiudersi: questa microscopica casa divenne il mio anelato rifugio.
E poi venne il ritorno del dolore: dopo due anni dallo schianto, quando la mia vita quotidiana apparentemente sembrava cominciare ad avere nuovamente un senso e mi sentivo più forte, arrivò…malvagio e bastardo, ancora peggiore perché inatteso. Una notizia che mi fece ripiombare nel buio e nella disperazione. E seppi cosa fare: non avevo un pattino con cui togliermi un dente che avrebbe potuto portarmi alla morte ma avevo la capacità di recidere in modo drastico quei rapporti che mi stavano facendo ritornare a fondo. Li estirpai. Bruciai la foto. Decisi che quel dolore doveva morire perché io volevo vivere. E quando mi ripresi, perché abbandonare il passato, anche se arreca sofferenza, è comunque un percorso che toglie forze ed energie, decisi che si, era arrivato il momento di riprovare, di far ritorno al mondo che avevo lasciato; io molto diversa, più vecchia fuori ma più giovane e forte dentro, con occhi nuovi e con nuove speranze.
Avevo timore di rimettermi “in mare” ma il destino aveva portato anche a me delle ali su un pezzo di lamiera…poco importa che fossero nere su di un serbatoio giallo, erano proprio ali…e con quelle, lo sapevo, ci potevo provare. Lo so è solo un simbolo: ero una pessima motociclista, ma quella moto fu la mia vela. E rimettendomi in viaggio mi accorsi che il mio Wilson, la me di prima che si sentiva in dovere di vivere in funzione di un altro prima che di se stessa, non c’era più; un distacco doloroso ma fondamentale, perché ormai io ero molto diversa da lei, con sogni novelli, una nuova visione della vita, una diversa consapevolezza, quasi fossi davvero rinata a me stessa. Mi sembrava di aver scoperto la differenza tra “vivere” e “sopravvivere”. Riuscivo a respirare, finalmente, stupendomene tanto a lungo ero rimasta in apnea, e con i respiri giunsero i sorrisi.
Abbandonate le sovrastrutture che non mi appartenevano, sulla mia zattera c’erano ora finalmente solo le cose che mi servivano davvero: gli affetti, la voglia di amare, i libri, la voglia di imparare, la musica, la voglia di sentire, i pastelli colorati, la voglia di gioire, carta e penna, la voglia di scrivere e di comunicare. Erano quelle le cose importanti per me, quelle che volevo portare nella mia nuova vita.
Su quella zattera ho provato brevi ma intensi attimi di gioia, finalmente libera.
Approdai nuovamente ad una terra che mi sembrava ricca e verde, per un attimo credetti di essere a casa ma sbagliavo; ancora smarrimento, un rinnovato dolore. Ma ora io ho la zattera, con le sue belle ali, sulla quale ho caricato una diversa consapevolezza ed un immenso amore per la vita: ho ripreso il mare perché tanto “domani il sole sorgerà ancora, e chissà cosa può portare la marea…“