Bianco accecante

Preferisci non guardare, non incrociare il tuo sguardo con quegli occhi, quei tubi, quelle macchine. Hai già il tuo dolore, pensi, non hai energie sufficienti per osservare anche quello degli altri, per permettergli di entrare in te. Paura? Egoismo? Non lo so, forse semplicemente cecità. Un mondo, si, quello è un mondo di bimbi che soffrono, e tu credi di non essere in grado di entrare in quel dolore per cui ti metti un camice, una cuffia, i calzari e tiri dritto per la tua strada, senza guardare, fin che raggiungi quella porta, incroci quegli occhi che ami, il letto, i tubi, le macchine che non ti sembrano brutti come gli altri, e ti chiudi la porta alle spalle come se questo gesto potesse trasportarti in un altro mondo, diverso, più bello, con meno sofferenze. Poi capita che una mattina, esci da quel padiglione sempre scortata dal tuo paraocchi e ti ritrovi in giardino, a respirare il profumo del mare e ti liberi dalle tue difese che pensi non ti serviranno più, almeno fino alla prossima volta, e mentre ti dirigi verso il parcheggio la vedi, li di fianco, in una macchina scura: una piccola bara bianca, così piccola da sembrare irreale. Non ci sono occhi, non ci sono tubi, non ci sono macchine ma tu hai lasciato il tuo paraocchi e quel bianco ti entra nel cuore e nello stomaco come una fucilata e, anche se cerchi di allontanare il pensiero, ti immagini una mamma, un papà, una famiglia, e senti il loro dolore nella tua pelle e capisci che la tua sofferenza è nulla rispetto a quello di molti e che il non voler vedere non significa che ciò che tu non vedi non esista. Ed è così che, finalmente, abbandoni il tuo paraocchi, distrutto in un nanosecondo da una piccola macchia di bianco accecante, e ripercorri quegli stessi corridoi osservando altri piccoli occhi, scambiando sorrisi, e scoprendo, con grande meraviglia, che la condivisone, anche solo di uno sguardo, rende il dolore più lieve.

In loving Memory

A volte rivedo i tuoi occhi freddi, riascolto le tue parole, dette per uccidere. A volte risento le tue mani sulle spalle e quella spinta forte che mi ha fatto volare nella paura. Non bisognerebbe permettere a nessuno di rubarci tanto di noi. Non so a che cosa potrò ancora credere, di chi potrò ancora fidarmi, ma ora non è così importante; quello che conta è che lontana da te respiro e, a tratti, riesco anche a sorridere. Mi chiedono perché ti abbia comunque aiutato. Perché mi fai pena e questo sentimento è la tomba di tutto quello che ho provato per te. So che persona sono, va bene così, posso andare avanti e camminare a testa alta, guardando chiunque dritto negli occhi, compreso te.

Foto di Andrew Martin da Pixabay

Amore immaginato

Ti ho atteso da sempre, come se la tua storia fosse già scritta nella mia. Ero certa che ti avrei incontrato, dandoti tutta me stessa, ed ho sofferto nell’accorgermi di non essere pronta ad accettare questa rinuncia. E’ stata dura, lo sai. Tante volte ti ho immaginato, intuendo il tuo profumo, sentendo, dentro le mie, le tue mani morbide e bianche, asciugando sul mio seno le tue lacrime. Tante volte ti ho inventato nei visi di altri, pensandoti sempre più bello. Ho sognato che sarei riuscita a trovare davvero una parte importante di me se avessi avuto la possibilità di vedere i tuoi occhi aprirsi al mattino ed abbandonarsi al sonno, la sera, se avessi potuto riconoscermi nel tuo sguardo e nel tuo sorriso.

Ero certa avresti riempito la mia vita d’amore, che l’avresti completata come solo un immenso dono può fare. Ho fatto castelli in aria, pensando che ti avrei raccontato come ero stata io da bambina, le amicizie, i giochi in campagna, la casa sull’albero, e tutti quei ricordi sciocchi, come i gettoni delle cabine del telefono ed il mangianastri che, davvero, si mangiava le cassette, e si doveva riavvolgerle con la biro, tutte cose che oggi non esistono più.

Ti avrei raccontato di ciò che davvero conta per me, della mia famiglia, delle cose in cui credo, di come la vita cambia, di giorno in giorno, e di come cambiamo noi. Ti avrei aiutato a non avere paura, perché vivere è si, un percorso difficile, ma altrettanto meraviglioso. Ti avrei insegnato la pazienza e a guardare le cose da tanti punti di vista, ti avrei spiegato che le persone, nel bene e nel male, non sono sempre quello che sembrano a prima vista e che non è mai una cosa buona fermarsi alla superficie o emettere giudizi. Ti avrei insegnato a difenderti ma a mantenerti retto ed onesto perché nulla paga di più della pace con la propria coscienza, avrei cercato di trasmetterti il concetto di rispetto per gli altri e l’amore per il tuo prossimo, perché l’attenzione non indebolisce mai, ma rende più forti. Avrei cercato di farti capire che spesso si sbaglia e che gli errori possiamo riconoscerli e perdonarceli.

Ti avrei narrato dei miei viaggi e ne avrei fatti di nuovi, con te, scoprendomi migliore nell’osservare le cose anche attraverso i tuoi occhi. Ti avrei fatto vedere le fotografie della mia storia e, prendendoti per mano, ti avrei silenziosamente accompagnato nella costruzione della tua, con un’apprensione costantemente celata. E avremmo riso, scherzato, ci saremmo abbracciati, avremmo litigato, saresti scappato tornando da me, che ti avrei accolto.

Avrei cercato di proteggerti sempre, perché non si può non difendere ad oltranza una parte di te. Avrei ascoltato i tuoi turbamenti e, se null’altro fossi stata in grado di fare, per alleviare le tue pene, o per consolare i tuoi fallimenti, mi sarei seduta accanto a te, semplicemente facendoti sentire la mia presenza. Voglio credere che, se non mi avessi più voluto vicina, sarei stata capace di tacere il mio egoismo, lasciandoti libero di volare.

Il mio amore immaginato per te è stato viscerale ed immenso. Sarà l’unico vero rimpianto della mia vita questo sogno non avverato, bambino mio.

Foto di skeeze da Pixabay

Ali

Caro amico,

dopo il nostro logorroico dissertare di Cast Away, come spesso accade, ho continuato a pensare a quella discussione che aveva fatto rinascere in me antichi ricordi; non considerai mai quel film un capolavoro ma ebbi modo di rivederlo proprio nei giorni successivi a quello che, ritengo, sia stato il mio primo vero naufragio e fu stimolo importante per me, come spesso accade in vari periodi della vita con qualche cosa in cui mi imbatto e che mi esorta a nuovi pensieri e riflessioni. Proverò a raccontarti le sensazioni che provai, il percorso che feci; la comunicazione tramite le parole scritte, mi aiuta a riprendere il mio cammino mantenendo il buono conquistato, ed è quasi certamente per me un mezzo per ri-conoscermi e ri-trovarmi.

Rammento che seguii quel film, quasi riflettendomi in uno specchio, rinvenendo nella sua storia, nella musica e nella splendida fotografia una parte di me e, con essa, sollievo per la mia anima. Non so se sia più o meno usuale avvalersi di film o libri per ritrovare parti di sé; forse sono solo percorsi canonici che ciascuno di noi, in un momento o nell’altro della propria vita, si trova a fare, seguendo vie differenti ma comunque sempre al solo scopo di perseguire la propria “guarigione”.

Come accadde per Chuck il mio non fu un dolce ammaraggio ma un vero e proprio schianto, un’improvvisa e devastante crisi esistenziale che, nello stupore generato da ogni evento inatteso, tutto stravolge generando paure, insicurezze, amplificando la percezione delle fragilità, un senso improvviso di mancanza di fiato, il non sentirsi la terra sotto i piedi, la sensazione di aver perso tutto e di dover ricominciare da capo, da soli, senza mezzi e con scarse possibilità. No, non mi trovavo su di un’isola deserta, ma sentivo la necessità di isolarmi dal mondo frenetico che mi circondava, di crearmi la mia capanna, procacciarmi il cibo, che nella vita precedente non era mia priorità cercare; la voglia di vivere nonostante tutto, aggrappandomi alla mia famiglia, unica terra ferma incontrata, ed iniziando un periodo di distacco, introspezione, catarsi, forse purificazione.

Avevo con me una fotografia, non era quella di un uomo al quale volessi o potessi tornare, solo un viso che, dentro di me, non ero ancora pronta a lasciare andare insieme a tutto quello che aveva rappresentato. No, non fu quella lo stimolo per reagire; forse, l’immagine che seguii fu quella della persona che, nonostante tutto, volevo cercare di essere, una donna più libera e consapevole, non legata a schemi prefissati, a logiche di altri, ad un mondo al quale sentivo di non appartenere. Credo che se non avessi avuto alle spalle la mia famiglia ed i miei pochi ma fondamentali amici il mio Wilson avrebbe dovuto essere uno psicoterapeuta ma fui fortunata ed usai a quello scopo la scrittura, il parlare con la “vecchia me” con la quale mi scontravo e dalla quale traevo le mie risorse, buttando sulla carta tutto quello che avevo dentro di affascinante, di mostruoso, di inspiegabile, di angustiante, di fiducioso.

La priorità fu imparare a procacciarmi il cibo: lo sapevo fare, prima, nell’altro mondo, ma in questo era tutto diverso. Ricostruii un’attività parzialmente trascurata, recuperai contatti che pensavo perduti, ricominciai a studiare e a crearmi nuove occasioni ed opportunità.

Poi venne il momento della capanna, ci vuole un posto dove rifugiarsi dal mondo, un luogo tranquillo dove rinchiudersi: questa microscopica casa divenne il mio anelato rifugio.

E poi venne il ritorno del dolore: dopo due anni dallo schianto, quando la mia vita quotidiana apparentemente sembrava cominciare ad avere nuovamente un senso e mi sentivo più forte, arrivò…malvagio e bastardo, ancora peggiore perché inatteso. Una notizia che mi fece ripiombare nel buio e nella disperazione. E seppi cosa fare: non avevo un pattino con cui togliermi un dente che avrebbe potuto portarmi alla morte ma avevo la capacità di recidere in modo drastico quei rapporti che mi stavano facendo ritornare a fondo. Li estirpai. Bruciai la foto. Decisi che quel dolore doveva morire perché io volevo vivere. E quando mi ripresi, perché abbandonare il passato, anche se arreca sofferenza, è comunque un percorso che toglie forze ed energie, decisi che si, era arrivato il momento di riprovare, di far ritorno al mondo che avevo lasciato; io molto diversa, più vecchia fuori ma più giovane e forte dentro, con occhi nuovi e con nuove speranze.

Avevo timore di rimettermi “in mare” ma il destino aveva portato anche a me delle ali su un pezzo di lamiera…poco importa che fossero nere su di un serbatoio giallo, erano proprio ali…e con quelle, lo sapevo, ci potevo provare. Lo so è solo un simbolo: ero una pessima motociclista, ma quella moto fu la mia vela. E rimettendomi in viaggio mi accorsi che il mio Wilson, la me di prima che si sentiva in dovere di vivere in funzione di un altro prima che di se stessa, non c’era più; un distacco doloroso ma fondamentale, perché ormai io ero molto diversa da lei, con sogni novelli, una nuova visione della vita, una diversa consapevolezza, quasi fossi davvero rinata a me stessa. Mi sembrava di aver scoperto la differenza tra “vivere” e “sopravvivere”. Riuscivo a respirare, finalmente, stupendomene tanto a lungo ero rimasta in apnea, e con i respiri giunsero i sorrisi.

Abbandonate le sovrastrutture che non mi appartenevano, sulla mia zattera c’erano ora finalmente solo le cose che mi servivano davvero: gli affetti, la voglia di amare, i libri, la voglia di imparare, la musica, la voglia di sentire, i pastelli colorati, la voglia di gioire, carta e penna, la voglia di scrivere e di comunicare. Erano quelle le cose importanti per me, quelle che volevo portare nella mia nuova vita.

Su quella zattera ho provato brevi ma intensi attimi di gioia, finalmente libera.

Approdai nuovamente ad una terra che mi sembrava ricca e verde, per un attimo credetti di essere a casa ma sbagliavo; ancora smarrimento, un rinnovato dolore. Ma ora io ho la zattera, con le sue belle ali, sulla quale ho caricato una diversa consapevolezza ed un immenso amore per la vita: ho ripreso il mare perché tanto “domani il sole sorgerà ancora, e chissà cosa può portare la marea…