Capita che torni un po’ stanca e devi metterti a stirare. Capita di avere quella melanconia che non si sa perché invece di cancellare nutri con la musica. Capita che dici: ” Alexa, John Coltrane” (ma non lo dici bene come lo leggete voi). Capita che invece della solita vocina che ti chiede se vuoi ascoltare proprio John Coltrane ascolti solo un sussulto e allora alzi lo sguardo. Capita che Alexa sia letteralmente seppellita sotto la micia che l’abbraccia facendo le fusa. Capita che allora ascolti la musica dal PC perché certi strani amori vanno comunque rispettati.
In loving Memory
A volte rivedo i tuoi occhi freddi, riascolto le tue parole, dette per uccidere. A volte risento le tue mani sulle spalle e quella spinta forte che mi ha fatto volare nella paura. Non bisognerebbe permettere a nessuno di rubarci tanto di noi. Non so a che cosa potrò ancora credere, di chi potrò ancora fidarmi, ma ora non è così importante; quello che conta è che lontana da te respiro e, a tratti, riesco anche a sorridere. Mi chiedono perché ti abbia comunque aiutato. Perché mi fai pena e questo sentimento è la tomba di tutto quello che ho provato per te. So che persona sono, va bene così, posso andare avanti e camminare a testa alta, guardando chiunque dritto negli occhi, compreso te.

Amore immaginato
Ti ho atteso da sempre, come se la tua storia fosse già scritta nella mia. Ero certa che ti avrei incontrato, dandoti tutta me stessa, ed ho sofferto nell’accorgermi di non essere pronta ad accettare questa rinuncia. E’ stata dura, lo sai. Tante volte ti ho immaginato, intuendo il tuo profumo, sentendo, dentro le mie, le tue mani morbide e bianche, asciugando sul mio seno le tue lacrime. Tante volte ti ho inventato nei visi di altri, pensandoti sempre più bello. Ho sognato che sarei riuscita a trovare davvero una parte importante di me se avessi avuto la possibilità di vedere i tuoi occhi aprirsi al mattino ed abbandonarsi al sonno, la sera, se avessi potuto riconoscermi nel tuo sguardo e nel tuo sorriso.
Ero certa avresti riempito la mia vita d’amore, che l’avresti completata come solo un immenso dono può fare. Ho fatto castelli in aria, pensando che ti avrei raccontato come ero stata io da bambina, le amicizie, i giochi in campagna, la casa sull’albero, e tutti quei ricordi sciocchi, come i gettoni delle cabine del telefono ed il mangianastri che, davvero, si mangiava le cassette, e si doveva riavvolgerle con la biro, tutte cose che oggi non esistono più.
Ti avrei raccontato di ciò che davvero conta per me, della mia famiglia, delle cose in cui credo, di come la vita cambia, di giorno in giorno, e di come cambiamo noi. Ti avrei aiutato a non avere paura, perché vivere è si, un percorso difficile, ma altrettanto meraviglioso. Ti avrei insegnato la pazienza e a guardare le cose da tanti punti di vista, ti avrei spiegato che le persone, nel bene e nel male, non sono sempre quello che sembrano a prima vista e che non è mai una cosa buona fermarsi alla superficie o emettere giudizi. Ti avrei insegnato a difenderti ma a mantenerti retto ed onesto perché nulla paga di più della pace con la propria coscienza, avrei cercato di trasmetterti il concetto di rispetto per gli altri e l’amore per il tuo prossimo, perché l’attenzione non indebolisce mai, ma rende più forti. Avrei cercato di farti capire che spesso si sbaglia e che gli errori possiamo riconoscerli e perdonarceli.
Ti avrei narrato dei miei viaggi e ne avrei fatti di nuovi, con te, scoprendomi migliore nell’osservare le cose anche attraverso i tuoi occhi. Ti avrei fatto vedere le fotografie della mia storia e, prendendoti per mano, ti avrei silenziosamente accompagnato nella costruzione della tua, con un’apprensione costantemente celata. E avremmo riso, scherzato, ci saremmo abbracciati, avremmo litigato, saresti scappato tornando da me, che ti avrei accolto.
Avrei cercato di proteggerti sempre, perché non si può non difendere ad oltranza una parte di te. Avrei ascoltato i tuoi turbamenti e, se null’altro fossi stata in grado di fare, per alleviare le tue pene, o per consolare i tuoi fallimenti, mi sarei seduta accanto a te, semplicemente facendoti sentire la mia presenza. Voglio credere che, se non mi avessi più voluto vicina, sarei stata capace di tacere il mio egoismo, lasciandoti libero di volare.
Il mio amore immaginato per te è stato viscerale ed immenso. Sarà l’unico vero rimpianto della mia vita questo sogno non avverato, bambino mio.
La piscina
La guardo. E’ azzurra, limpida promessa di pace. Silenzio. Non c’è nessuno oltre a me. Cuffia ed occhialini; l’acqua ha una temperatura perfetta e mi accoglie avvolgendomi in una calma profonda. Mi immergo, butto fuori tutta l’aria, scendo fino a toccare il fondo, e li mi fermo un po’, sdraiata, ad ascoltare il silenzio. Non so da dove nasca la mia affinità con questo elemento, ma, certo, qui mi sento perfettamente a mio agio, in acqua trovo quiete e ristoro, il giusto equilibrio tra il corpo ed i pensieri. Non so neppure perché il percorso per rielaborare i miei dolori sia sempre tanto lungo ed articolato; forse, come le gioie e le passioni, vivo anche le sofferenze in modo estremo, forse metto talmente tanto di me nelle cose che poi ho bisogno di altrettanto tempo per lenire le ferite, ritrovarmi, capire. Sono eccessiva, questo è certo, nel bene e nel male. Ecco perché vengo qui, per equilibrare gli eccessi, per lasciare che questo stato di benessere e leggerezza si diffonda, lentamente, dai muscoli alla mente in un ambiente in cui tutto è ovattato, sobrio, a mio sentire elegante, un luogo nel quale la mia mente, abituata a poggiare saldamente i piedi a terra, si libera dai vincoli e crede davvero di volare, un mondo in cui, più gli occhialini si appannano, e più si dipanano i pensieri che diventano nitidi, limpidi come l’elemento che mi circonda, trasportandomi in una dimensione diversa, quasi eterea. Comincio a nuotare, una vasca a rana, una a stile libero. E’ come se, per un po’ di tempo, quell’acqua, il movimento, facessero da barriera tra me e tutto il resto, rigenerandomi; non esiste null’altro che il mio corpo, in pace con la mente. Aspetto il “click”, così definisco quel momento in cui, dopo le prime vasche sempre un po’ in affanno ed in debito d’aria, il mio cervello entra finalmente in sintonia con i polmoni e con gli arti e sento che potrei non fermarmi più. Il “click” arriva, ed è bellissimo; non ho fretta, il respiro è cadenzato, ritmato dal rumore stesso dell’acqua attorno a me. Comincio a sentire i muscoli che si riscaldano, mi allungo nelle bracciate godendo di quella sensazione di leggerezza, lascio che la stanchezza arrivi, piano, regalandomi una sensazione di pienezza e di appagamento. Spesso mi domando che ho di sbagliato, come faccio a valutare in modo tanto errato persone ed avvenimenti, perché devo vivere ogni emozione in modo così viscerale, metterci tanto tempo a dimenticare quando tante persone, attorno a me, riescono semplicemente a passare oltre; deve esserci qualche cosa che mi sfugge, brevi momenti di gioia si alternano a malinconie che paiono senza limiti. Ma qui tutto viene lavato, purificato, ricondotto ad un’altra dimensione, quasi disinfettato dal cloro ed i pensieri scuri si schiariscono, pian piano…sorridere nuotando? Si, si può. E poi mi costa meno dello psicologo.

Gentilezze
Mi scoppia la testa; me ne sarei stata in casa ma mi sono dovuta arrendere a fare un giro in farmacia prevedendo che il fai da te erboristico questa volta non potrà funzionare. Qualche arancia, vitamina C, mi sono detta entrando al supermercato, senza riflettere sul fatto che sia sabato pomeriggio. Con il mio misero cestello sono subito dietro all’anziana signora e dietro a me, in una frazione d’attimo, si materializza un’orgia dantesca di carrelli straripanti, adulti vocianti e ragazzini urlanti, una coda assordante. Sono a pezzi, barcollo, ma resto in equilibrio e già questo mi consola. Bib, bip, bip…”signora, non ha prezzato le pere…, va a pesarle o le lascia?”. “Mi servono!”. Agguanta il bastone, che non avevo visto appoggiato al banco e fa per girarsi. La coda incomincia a sussultare come un cobra molto incazzato e io mi immagino la vecchierella ingurgitata a mo’ di topolino. “Vado io, non si preoccupi”, prendo il sacchetto dalle mani della cassiera, volo al reparto ortofrutta con le poche energie che mi restano e torno indietro prima che la cassiera abbia finito di passare allo scanner il resto della spesa. “Grazie”, dice lei. “Ero capace anche da sola!” dice l’anziana signora con uno sguardo che mi fa pensare che avrei proprio dovuto lasciarla ingoiare.
Mi chiamo Billy
Mi chiamo Billy e vivo con Scintilla dal 1997. Ancora ricordo il giorno in cui venne a prendermi con la macchina chiesta in prestito al papà perché nella sua non ci stavo. Impiegò un intero fine settimana a costruirmi, secondo le istruzioni di mamma Ikea, due moduli da 80 e tre da 60 cm, e, ahimè, ancora mostro i segni di tale attività: qualche buchetto qua e là fatti prima che lei capisse che i pannelli dovevano essere inchiodati al retro e non dove capitava.
Occupavo un’intera parete del soggiorno. Ero ordinata, distinta, con una discreta classe, nonostante la mia semplicità: i libri, alcuni di un certo valore, allineati in ordine di altezza e di colore, a volte d’autore. Noiosa. Credo fossi così. Ligia al dovere non mi permettevo di essere altro da ciò che tutti si aspettavano da me: una libreria. E’ faticoso sforzarsi sempre di essere quello che gli altri vogliono vedere, credo proprio che arrivai, ad un certo punto, a non poterne proprio più, anche se non avevo il coraggio di ammetterlo, neppure a me stessa. Seguire regole che non sono le tue, non fa sempre bene.
Arrivarono giorni difficili. Quella casa non era più la stessa, si respirava un’aria di infinita tristezza. Scintilla piangeva, non mangiava, stava poco con me: credo che guardare ciò che la circondava le facesse male, per questo usciva spesso ed io restavo li, linda ed ordinata, nel silenzio di quella casa malinconica. Il mio dolore culminò con uno smembramento: ero di nuovo a pezzi, senza un’apparente identità e con nessuna certezza: che ne sarebbe stato di me?
Mi ricostruirono qui: una casa microscopica dalla quale posso guardare il cielo attraverso la grande finestra e scoprii di avere molte più anime. E’ strano come, a volte, devi essere distrutta per imparare a conoscere e ad amare altre parti di te. Un mio modulo è finito in cantina: gli piace stare li, conserva alcuni ricordi oltre gli scarponi da sci, le scarpe da trekking, le ciaspole . Un altro è di fianco al PC: in teoria dovrebbe essere il mio lato colto, con tutti quei testi scientifici, ma svolge più che altro la funzione di archivio della contabilità e di rifugio dei peccati di casa. Credo sia la parte più impolverata di me. E poi ci sono io. Più piccola di prima, certo, ma molto più felice. Non sono più appoggiata al muro ma divido la stanza in una zona cucina ed una “tutto il resto”. La mia schiena ha ora il colore delle albicocche ed ha appeso un pannello di legno con dipinta una finestra. E davanti…beh…che dirvi…nel mio caotico disordine, a volte, mi trovo bellissima. Gli scaffali in basso sono dedicati agli hobby: c’è quel cestino di vimini con i ferri ed il golf che Scintilla non finirà mai e dal quale Goccia, ogni tanto, si diverte a tirare fuori qualche gomitolo, i libri di cucina, la scatola del punto croce, i pastelli ed i colori: un angolo, quello vicino al letto, è dedicato al fitness, con tutti quegli aggeggini che farebbero tanto bene al fisico se qualcuno li usasse con una certa costanza. Più in alto in ordine sparso ci sono il ripiano bar, i CD, i DVD, un po’ di foto, qualche oggettino e tanti libri: edizioni economiche ammonticchiate senza logica alcuna ma facili da trovare, per chi sappia cosa cerca. Sono più bassa ora, per fare passare la luce del sole, e dall’alto spiano gli eventi di casa i due orsi di pezza, la latte per i biscotti di Natale, la scatola con le cartine ed i ricordi di viaggio. L’edera mi solletica un fianco. Nascondo un piccolo flaconcino di vetro che cela a sua volta un biglietto in cui Scintilla scrisse un sogno, quando arrivammo qui. Sono certa che, prima o poi, lo realizzeremo.
Mi chiamo Billy, credevo di essere una libreria, ma grazie al dolore, ho scoperto di essere molto di più.

Requiem

Sono come San Tommaso, lo so, devo vedere per credere, così le ho fatto l’autopsia.
Non è che ci abbia trovato dentro molto di particolare, in fondo. Cenere, ovunque. Racconti, un po’ dolenti e, forse, incoerenti. Sale, pareva il residuo di lacrime asciugate. Ironia sparsa. Due lenti a contatto, usa e getta, -3,5 diottrie. Pane e salame. Sogni, avvinghiati, come se non se ne volessero andare. Un po’ di mortadella. Ricordi, alcuni incorniciati, altri no. Goccioline di caffè. Una speranza che è saltata fuori, ancora baldanzosa. Una cosa gialla…che fosse tuorlo fossile? Parole. Formaggio e miele. Sorrisi. Qualche goccia di brachetto passito. Tutto qui.
Davvero, non riesco proprio a capire perché sia morta, la mia tastiera
LA RAGAZZA DELLA NEVE Pam Jenoff

Due le protagoniste: Noa, una giovanissima olandese cacciata di casa perché incinta di un soldato tedesco e che ai tedeschi è stata costretta ad abbandonare il proprio figlio, ed Astrid, ebrea originaria di una nota famiglia circense che da un tedesco è stata ripudiata a seguito delle leggi razziali del Reich. A ciascuna di queste due donne la scrittrice affida il compito, a capitoli alterni, di descrivere lo svolgersi degli eventi e l’altra attraverso i propri occhi. A fare da sfondo il circo e la sua vita. Ci sarebbero tutti gli ingredienti perfetti per dare origine ad un libro veramente unico; una storia basata su eventi realmente accaduti, se pur con tutte le licenze che un romanzo ha diritto di concedersi, un treno della morte pieno di bambini ebrei ed un circo tedesco il cui direttore, invece, gli ebrei li nasconde e li protegge, due protagoniste, tanto diverse per età ed esperienza di vita costrette a lavorare insieme per la sopravvivenza e compiere, in tal modo, anche un percorso di evoluzione, di amicizia e fiducia reciproca, due storie d’amore. Sarebbe potuto essere un gran libro; il condizionale è il tempo che, a mio parere, meglio si addice a questo romanzo, anche se, in considerazione del fatto che lo stesso è rimasto per mesi tra i Blockbuster del New York Times, probabilmente sono io ad essere ipercritica. Terminata la lettura credo tuttavia che, come può accadere in cucina, ove si possano rovinare i migliori ingredienti trasformandoli in un piatto senza identità, così l’autrice è riuscita a rendere banale una storia potenzialmente di grande carattere. Il linguaggio della narrazione è di una semplicità a volte spiazzante, quasi elementare; i sentimenti sono descritti con il calore di un ghiacciolo al polo nord e non vi è un reale approfondimento dei personaggi che restano comunque estranei al lettore. Mai emergono davvero vividi i colori, gli odori, i rumori e, perché no, la magia del circo. Un vero peccato!
Così
Correndo immobile annodo pensieri.
Ho una mano grande, stretta a pugno, una piccola, il palmo alzato, a raccogliere pioggia.
Ho un occhio bianco, ho un occhio nero.
Accolgo respiri in apnea osservando il fiume seguire lentamente il suo corso.
La strada per la libertà
Loreta Asanavičiūtė era una ragazza da far innamorare. Aveva capelli neri, leggermente ondulati, di lunghezza media, con la riga a sinistra. Occhi scuri, sopracciglia folte e dritte e una bocca che non passava inosservata, con labbra piene, ben definite. Era minuta, con un collo lungo e sottile. La cosa più toccante era il suo sguardo serio… Doveva avere un carattere tranquillo, timido e introverso.
Da Anime Baltiche di Jan Brokken
Loreta era nata il 22 aprile del 1967 a Vilnius a quel tempo capitale della Repubblica Socialista Sovietica di Lituania.
Nel 1944, al termine del conflitto mondiale, i Paesi Baltici persero la propria indipendenza ed entrarono a far parte stabilmente dell’Unione Sovietica dato che quest’ultima sostenne che il Patto Molotov-Ribbentrop per la loro annessione fosse già stato stipulato con la Germania nazista prima dell’inizio delle ostilità e negando, pertanto, che ci fosse stata un’occupazione dei Baltici. Gli Stati Uniti e la maggior parte degli stati vincitori non riconobbero mai all’URSS l’annessione, tuttavia non fecero nulla per opporvisi limitandosi a mantenere presenti nei territori occidentali le ambasciate dei tre Paesi.
Il 23 agosto 1989, esatto cinquantenario della firma del patto Molotov-Ribbentrop, Lituania, Lettonia ed Estonia diedero al mondo una colossale dimostrazione di unità: la Via Baltica, Baltijos kelias, concretizzò quello cui gli organizzatori ed il movimento indipendentista Sajūdis stavano lavorando da poco più di un mese. Due milioni di persone, un quarto circa della popolazione delle repubbliche baltiche dell’epoca, scesero per le strade cantando, tenendosi per mano, portando fiori e nastri da lutto sui costumi popolari per commemorare le vittime della repressione. Più di 600 km di una catena ininterrotta di mani unite ad unire le tre capitali, Vilnius, Riga, Tallinn e, tra quelle, anche le mani di Loreta.
Nei mesi di gennaio e febbraio del 1991, a Vilnius, la protesta contro il regime si intensificò e si svolse prevalentemente davanti alla Torre della Televisione che venne occupata allo scopo di diffondere il messaggio libertario. I rivoluzionari erano disarmati. Nella notte tra il 12 e il 13 febbraio, Loreta era di guardia alla torre con due amiche; nella stessa notte Vilnius era occupata dai carri armati inviati da Gorbacëv per reprimere la rivolta. Dinnanzi alla folla pacifica ed in diretta televisiva ininterrotta, il governo sovietico si vide costretto a richiamare i blindati, non prima, tuttavia, di aver lasciato a terra quattordici vittime, tra le quali Loreta. Si racconta che, al suo arrivo in ospedale, ella fece in tempo a porre due semplici e disarmanti domande: “Dottore sopravvivrò? Potrò ancora sposarmi?”. Poi morì. Aveva 23 anni.
Loreta aveva soltanto un anno meno di me; chissà, se non fosse morta in questo mio viaggio avrei potuto incontrarla in un negozio, come guida ad un museo, per strada, con i suoi figli. Avrei potuto incrociarla in un qualsiasi aeroporto, finalmente libera, finalmente Lituana, finalmente Europea. Ci saremmo potute conoscere in un altro viaggio, in un diverso continente ed avrei potuto guardarla negli occhi e vedere il suo orgoglio per aver lottato e contribuito a costruire la sua Nazione nonché a rivendicarne l’appartenenza all’Unione Europea ed alla Nato, baluardi a difesa di quell’indipendenza tanto duramente conquistata la quale, ancora oggi, deve fare i conti con la minacciosa vicinanza della Russia di Putin, che non ha mai nascosto di considerare tuttora i baltici parte della propria “sfera d’influenza”. Avremmo potuto parlare di tante cose, credo. Mi domando, però, cosa avrebbe pensato di partiti sovranisti quali la Lega, il Rassemblement National, l’Alternativa per la Germania o il partito delle Libertà Austriaco che si dichiarano vicini al presidente Putin nelle questioni dei rapporti con la Russia e se non avrebbe guardato con paura all’aumento del consenso di EKRE in Estonia. Chissà se avrebbe condiviso con me l’idea che quella ottusa e cieca parte di Europa che si sta lasciando incantare da una retorica del tutto priva dell’idea di solidarietà e che guarda con occhio accondiscendente, se non addirittura complice, agli innumerevoli episodi di razzismo ed intolleranza dimostra che poco ha davvero imparato dagli orrori del passato e che, in tal modo, sta permettendo a quella stessa retorica di cancellare dal nostro DNA la capacità ed il coraggio di creare una catena di mani a difesa del nostro futuro e della libertà.

