L’incontro

Sarà stata più o meno mezzanotte di una serata calda di tarda primavera; mi stavo accingendo ad andare a dormire, la finestra ancora aperta sul piccolo terrazzo. Mi piace chiudere gli scuri il più tardi possibile; la collina dinnanzi a casa muta di forma e colori ad ogni ora della sera e la vista che mi viene regalata è un po’ come un quadro personalizzato che trasmette emozioni differenti al cambiare del tempo e del mio umore. Quella notte c’era la luna piena, enorme nel cielo terso rischiarava quasi a giorno, e tutto intorno, miliardi di piccole stelle più o meno luminose sembravano voler proteggere il cammino di mille viandanti nel mondo ancora alla ricerca della loro strada. Ad un tratto sentii uno strano rumore, come se qualcuno camminasse, con passo lieve, sulla ghiaia, appena più sotto. Non c’era nessuno, i piccoli appartamenti vicini sono abitati soltanto per poche settimane, di solito ad agosto, portando rumori, odori, litigi, ma poi, come d’incanto, ognuno torna alla propria città, lasciando che questo torni un piccolo mondo di pace. Non è inusuale qui che qualche piccolo animale passeggi indisturbato nella notte: ci sono i gatti, naturalmente, tra cui la mia micia selvatica e vagabonda che non rispetta mai l’orario di rientro, scoiattoli, ricci, alcuni anni fa anche la volpe. Il rumore che udii quella sera, tuttavia, era particolare e non so dire se, di primo acchito, ebbi più timore o mi incuriosii, fatto sta che mi avvicinai alla ringhiera, protetta dai vasi di fiori, e guardai di sotto, alla ricerca dell’intruso. Non so descrivervi l’emozione che provai in quel momento: proprio sotto di me, in mezzo al cortile illuminato dalla luna, c’era un cerbiatto che camminava incerto, le zampe posteriori leggermente divaricate, piccole macchie sul pelo chiaro, la minuscola coda dritta, il muso sottile sollevato a fiutare l’aria. Si accorse della mia presenza, ma, forse data la distanza, parve più vigile che spaventato: ci fissammo, e, per un attimo, fu come se i suoi occhi grandi e scuri, brillanti nella notte, mi volessero trasmettere una sensazione di pace. Un piccolo scatto, si voltò, e con un salto sparì dietro agli alberi. Un’ultima occhiata alla luna, artefice di quel meraviglioso regalo, avvicinai gli scuri ed andai a dormire.

Foto di David Mark da Pixabay

Il suo mondo

Lei ha un mondo dentro di sé, un pianeta ricco di dolci colline, montagne innevate, cascate, fiumi e mari, boschi e pianure dai mille colori, profumo di fieno, di vino e di festa; lei ora sa che ha guardato troppo ad altri mondi, ingenuamente convinta che avessero bisogno di più cure del suo.

È strano, alcuni pianeti ti accolgono, ti fanno sentire importante, ti chiedono aiuto e tu senti che puoi contribuire a farli diventare più ricchi e belli ma quei mondi sono come fiori carnivori, profumati, affascinanti ma al contempo fagocitanti e si nutrono delle tue energie; e mentre tu lotti perché ami quei mondi e sei convinta che il loro benessere sia anche in parte una tua responsabilità non ti accorgi che, per loro, il tuo mondo è solo un satellite destinato a morire perché non te ne stai prendendo abbastanza cura e, certamente, nessun altro lo sta facendo per e, tanto meno, con te.

Poi, una mattina, si è svegliata ed ha sentito il calore del sole; volti gli occhi al suo mondo si è accorta che era giunto il tempo di tornare. C’erano il grano da mietere, i frutti maturi da raccogliere, massi caduti da spostare. E lentamente, con un po’ di fatica, lei ha ricordato come, dentro di sé, ci fossero profumi, lande sconosciute, gusti, valli inesplorate, sensazioni, fiumi sotterranei, emozioni, farfalle variopinte; stupita ha ritrovato tanto di familiare e molto di ancestrale mentre altro è nuovo, anche per lei.

E così è ri_partita, con un nuovo sorriso, alla scoperta di tutte le meraviglie che il suo mondo le potrà ancora svelare.

L’inutilità delle parole

Ero traboccante di emozioni. A quell’altezza, il fiato corto, l’aria tersa, vedere librarsi nel cielo, all’improvviso, quei tre enormi esemplari di condor mi aveva sopraffatta. Non mi aspettavo sensazioni così forti sulla pelle ma, in quel mondo di sogno, mi era parso di poter spiegare le ali con loro e planare, lentamente, in senso circolare, sopra l’infinito. Nello stupore più totale arrivai in paese e lo vidi. Non so cosa mi attrasse, forse solo quegli occhi chiarissimi e leggermente strabici, l’età indefinibile, il volto diverso, nei lineamenti e nei colori, da quello della gente di li. Una camicia azzurra, di cotone, non un maglione o un poncio colorato, le rughe profonde a segnare la fronte, poca barba incolta, ciuffi di bianco tra il nero corvino dei capelli. Ci fissammo. Mi avvicinai e gli porsi una sigaretta. Senza parlare ci sedemmo, sul gradino fuori dal negozio, vicini, ma discosti, e come due vecchi amici che si conoscono da tempo, guardammo le volute di fumo salire lentamente per riflettersi nella luce intensa del primo pomeriggio. Sempre senza una parola ci furono una foto, un sorriso, una stretta di mano. Presi lo zaino e salii sul pullman. Ma lui è ancora con me, insieme ai condor.

Crepi il lupo

Sorrise impercettibilmente mentre aggiungeva l’ultimo ingrediente alla pozione: i bimbi che giocavano a palla, vedendola saettare sopra le loro teste a cavalcioni della scopa, l’avevano scambiata ancora una volta per la befana. Beata ingenuità. Una radio era accesa da qualche parte, non troppo lontano, ed una voce flebile giungeva sino a lei: “Attenti al lupo. Attenti al lupo.” Un balzo al cuore: inutile, qualsiasi cosa, a questo punto, sembrava far parte di un complotto, forse di un incantesimo ordito da quel mago malvagio che aveva respinto, tanti anni prima. Tutto, in ogni momento, come accadeva ora con quella canzone, la riportava con la mente e lo stomaco ad un umano, la sua grandissima passione. “Amore mio non devi stare in pena, questa vita è una catena, qualche volta fa un po’ male…” Fin da piccina aveva imparato l’arte della magia eppure, adesso, era come se fosse lei stessa l’oggetto di un sortilegio che la teneva incatenata, a dispetto del tempo e dello spazio, a quell’uomo che non faceva parte del suo mondo. Aveva abbandonato ogni difesa, scordato le regole imposte dal suo status permettendosi un contatto con lui e creando così un’intimità troppo profonda; aveva varcato la soglia che le era vietata umanizzandosi e ora la sua magia non aveva alcun valore, lontana dai suoi occhi continuava a sentirsi persa in essi, cercandoli ovunque senza riuscire più a trovarli.”…e c’è un omino piccolo così, che torna sempre tardi da lavorare, e ha un cappello piccolo così, con dentro un sogno da realizzare…“. Già, anche nel suo capello c’era un sogno ma era inaccessibile per questo stava preparando quell’intruglio: una pozione della nonna, una ricetta che le avrebbe consentito di dimenticare lui, i suoi occhi, le sue mani, che l’avrebbe fatta tornare semplicemente quella che era prima, per sempre: una giovane strega, aliena ai piacere ed ai dolori del mondo senza possibilità di ritorno, senza più libero arbitrio. Era pronta. La piccola ampolla brillava tra le sue mani mettendo in risalto il colore ambrato del contenuto prezioso; tra pochi minuti avrebbe scordato per sempre le emozioni, le labbra, le carezze, le parole sussurrate, la capacità di amare dalla quale discende il rischio di soffrire. La sua mente ripercorse l’ultimo avventuroso anno…”e noi due qui distesi a far l’amore in mezzo a questo mare di cicale, questo amore piccolo così ma tanto grande che mi sembra di volare…“. Davvero voleva tornare quella di prima? Quel dolore non l’aveva forse resa migliore? Quelle emozioni non erano forse valse una vita intera? Singhiozzava ora, proprio come un’umana, e le sue lacrime bagnavano il libro di ricette cancellandone le parole senza che lei se ne rendesse conto. Quando se ne accorse, seppe che quella era la sua ultima possibilità per l’oblio, per fuggire dai sensi e dalle emotività, per riconquistare quel limbo ove non avrebbe più sofferto ma non avrebbe nemmeno mai più gioito davvero. “…stando sempre attenta al lupo“. Come dicevano gli umani per augurarsi qualcosa? “In bocca al lupo!”. Già. “Crepi il lupo”, disse ad alta voce aprendo lievissimamente il pugno e facendo scivolare l’ampolla sul pavimento. La stanza si riempì di fragranze di frutta e di fiori e lei fu certa di sentire il profumo dell’amore. Avrebbe continuato a vivere come un’umana tenendo lui, per sempre, nel cuore e nella mente e sperando, nonostante tutto, di incrociare di nuovo i suoi occhi un giorno, per caso, in mezzo alla folla.

Fioritura

È strano come, in particolari situazioni, sia davvero difficile avere percezione del tempo e del sé. In queste prime settimane di clausura forzata ho fatto fatica ad avere una vera consapevolezza dello scorrere delle giornate; le mie passioni apparivano troppo distanti dalla mente e dall’anima che, a loro volta, sembravano capaci di sopire parzialmente la perenne sensazione di ansia, solitudine ed indefinito soltanto con la musica ed il lavoro. Da qualche giorno, però, le cose stanno cambiando; la primavera mi ha riportato la voglia di scrivere, leggere, disegnare quei caratteri cinesi che mi trasportano, ogni volta, in un altro mondo. La primavera mi sta riconsegnando la me che può rifiorire anche in questo momento, nell’attesa di riabbracciare i miei affetti e nella speranza che il mondo possa riacquistare pace e libertà.

IL DIO DELLE PICCOLE COSE di Arundhati Roy

Quando un libro è di difficile lettura, e questo senza dubbio lo è, ognuno di noi cerca, credo, un appiglio particolare che lo convinca a proseguire o ad abbandonare. Io ho trovato Rahel, come me gemella eterozigote di un maschietto, e da lei, semplicemente, mi sono lasciata prendere per mano facendomi guidare nel cammino che, ammetto, è parso inizialmente assai ostico. Pagina dopo pagina, seguendo i suoi passi, ho “ritrovato” l’infanzia con mio fratello, tutti quei particolari meccanismi che solo noi eravamo in grado di vivere e comprendere, gli ingranaggi di un modo di comunicare, verbale e fisico, a nostro esclusivo appannaggio e svanito quasi completamente con l’età adulta, il sentirci un unico Noi a dispetto di chi insisteva nel volerci distinti. Ho ripensato a parole e gesti infantili, al senso di paura al pensiero di non essere amati, tipico dei bambini, al modo semplice e disincantato di affrontare problemi che non si è in grado di comprendere e di difendersi dal dolore arrecato da parole adulte che, spesso senza rendersene conto, insinuano dubbi ed insicurezze, pesando sul cuore come macigni. Per mia enorme fortuna io e Dando, così storpiavo da piccina il nome di mio fratello, abbiamo avuto una splendida infanzia e non siamo dovuti crescere, come i due piccoli protagonisti del libro, in un universo che non è affatto a misura di bambino ma, forse, è stato proprio questo rientrare in parte in una visione fanciullesca del mondo, dove le storie non hanno una sequenza logica e temporale ma puramente emozionale, nel quale la punteggiatura è strana e le maiuscole si infilano a caso tra le parole che mi ha permesso di continuare a leggere e ad imparare ad apprezzare questa narrazione da adulti vista attraverso occhi infantili. Una storia cruda e dolorosa, come solo la vita può essere, che si sviluppa, in modo assolutamente frammentario e discontinuo, tra andate e ritorni, ricordi e sensazioni, passato e presente, profumi ed emozioni, dolori e rimpianti, paure e rassegnazioni, odio e rimorsi; l’Amore, nelle sue mille forme, in un mondo dove, nonostante il “nuovo” nascente, regnano ancora, sovrani indiscussi, l’ingiustizia, la differenza di casta, il maschilismo e gli altri mille demoni che fanno l’essere umano. E in un mondo siffatto non si può più credere nella divina bontà; il Dio delle Piccole Cose soccombe portando con sé la speranza, la delicatezza, l’infanzia con i suoi sogni e le sue fantasie e cedendo il passo all’orrore, alla barbarie, ad eventi tragici ed incomprensibili ed alle cicatrici che essi lasceranno per il tempo e venire. L’autrice crea uno stile unico, complesso, ricco di allegorie, metafore complicate ma sempre perfette, cantilene e parole storpiate di bimbi che raccontano il Dolore così come l’hanno vissuto: parole che lasciano incantati, stupiti ed interdetti a fasi alterne, come alterni sono i sentimenti che hanno generato in me, prevenuta all’inizio, proprio per il tipo di scrittura che mi ha lentamente conquistata, forse proprio grazie alla piccola Rahel che non ha lasciato la mia mano lungo il cammino.

“E l’Aria era piena di Pensieri e Cose da Dire. Ma in momenti simili vengono dette solo le Piccole Cose. Le Grandi Cose si acquattano dentro, non dette”.

Sotto mentite spoglie

Per anni l’avevano considerato banale, l’ultimo dei bancari, un inetto. Ma la sua mente funzionava benissimo ed aveva programmato quel colpo nei minimi dettagli. Ora, fuggito dall’Italia, dalla banca e dalla polizia che lo stavano cercando, si trovava a New York, un conto corrente alle Cayman estinto e convertito in lingotti d’oro celati in luogo sicuro ed una discreta somma di dollari in tasca: una fortuna impossibile da rintracciare.

Sapeva che, se avesse lasciato le cose come stavano, prima o poi lo avrebbero scovato. Non sarebbero mai risaliti al suo tesoro, ma dieci anni dietro le sbarre non rientravano certo nei suoi progetti. Per questo si era messo in contatto con quel chirurgo plastico: avrebbe cambiato volto, nome, identità. Non sarebbe stato semplice, gli servivano documenti ed un numero di previdenza sociale, ma era sicuro che, con il denaro e l’intelligenza di cui poteva disporre, ogni problema sarebbe stato risolto.

A questo pensava passeggiando lungo le vie trafficate di Little Italy il giorno in cui lo vide: quell’uomo attirò subito la sua attenzione, per la corporatura e la carnagione, tanto simili alle sue, ma, soprattutto, per la parlata che non aveva perso l’accento tipico della terra d’origine. Un lampo attraversò la sua mente. Una piccola macelleria: copertura perfetta, chi mai lo avrebbe cercato li? Perché crearsi una nuova vita quando ce n’era una pronta ad aspettarlo? Avrebbe rubato l’identità del macellaio e finto un trauma atto a proteggerlo da domande di parenti, amici e conoscenti. Avrebbe cominciato da capo ma, questa volta, con un gran mucchio di soldi. Seguì la vittima designata. Per mesi cercò di imparare tutto su Calogero Paternicò: orari, abitudini, frequentazioni e solo quando fu certo di essere pronto si recò dal chirurgo con le fotografie. “E’ così che voglio diventare, non importa il prezzo”. La convalescenza fu lunga e dolorosa ma quando si vide allo specchio seppe di aver raggiunto lo scopo: doveva solo portare a termine l’ultimo atto della sua geniale messinscena.

Una gelida notte d’inverno: sapeva che il macellaio avrebbe chiuso tardi il negozio, come sempre, a fine mese. Entrò, il volto avvolto in una sciarpa, e richiuse la porta alle sue spalle. Stupore e sgomento negli occhi di Calogero quando la sciarpa cadde. Estrasse la pistola e sparò. Poi fu tutto un affannoso susseguirsi di sangue ed eventi; un segaossa, il tritacarne, un po’ di pancetta, il colorante, per nascondere il pallore delle carni umane, la marna, spezie e sale, l’insaccatrice ed il budello, lo spago e le gancere, come gli aveva insegnato il nonno quando, ogni anno, si uccideva il maiale.

Il macellaio ormai era salsiccia e lui era Calogero. Finalmente.

Non fece in tempo a rilassarsi per pensare a come proseguire nel progetto che la piccola bottega fu attorniata da luci azzurre e sirene assordanti. Un altoparlante: “FBI… Paternicò, esci con le mani alzate”. Nebbia. Sbigottimento. Non oppose resistenza: non sapeva gestire gli imprevisti. Gli dissero che era sospettato di essere un serial killer ricercato da anni in Texas ove assassinava le proprie vittime trasformandole in insaccati.

Non erano ma riusciti ad ottenere le prove ma quella volta le rinvennero in cella, appese a sgocciolare.

Ed anche ora che, nel braccio della morte, piange ed urla di essere solo un ladro italiano sotto mentite spoglie sa che, uccidendo “il macellaio”, ha rubato non solo la sua identità ma anche la sua anima e che dovrà pagare per questo.

Foto di tomwieden da Pixabay

Bianco accecante

Preferisci non guardare, non incrociare il tuo sguardo con quegli occhi, quei tubi, quelle macchine. Hai già il tuo dolore, pensi, non hai energie sufficienti per osservare anche quello degli altri, per permettergli di entrare in te. Paura? Egoismo? Non lo so, forse semplicemente cecità. Un mondo, si, quello è un mondo di bimbi che soffrono, e tu credi di non essere in grado di entrare in quel dolore per cui ti metti un camice, una cuffia, i calzari e tiri dritto per la tua strada, senza guardare, fin che raggiungi quella porta, incroci quegli occhi che ami, il letto, i tubi, le macchine che non ti sembrano brutti come gli altri, e ti chiudi la porta alle spalle come se questo gesto potesse trasportarti in un altro mondo, diverso, più bello, con meno sofferenze. Poi capita che una mattina, esci da quel padiglione sempre scortata dal tuo paraocchi e ti ritrovi in giardino, a respirare il profumo del mare e ti liberi dalle tue difese che pensi non ti serviranno più, almeno fino alla prossima volta, e mentre ti dirigi verso il parcheggio la vedi, li di fianco, in una macchina scura: una piccola bara bianca, così piccola da sembrare irreale. Non ci sono occhi, non ci sono tubi, non ci sono macchine ma tu hai lasciato il tuo paraocchi e quel bianco ti entra nel cuore e nello stomaco come una fucilata e, anche se cerchi di allontanare il pensiero, ti immagini una mamma, un papà, una famiglia, e senti il loro dolore nella tua pelle e capisci che la tua sofferenza è nulla rispetto a quello di molti e che il non voler vedere non significa che ciò che tu non vedi non esista. Ed è così che, finalmente, abbandoni il tuo paraocchi, distrutto in un nanosecondo da una piccola macchia di bianco accecante, e ripercorri quegli stessi corridoi osservando altri piccoli occhi, scambiando sorrisi, e scoprendo, con grande meraviglia, che la condivisone, anche solo di uno sguardo, rende il dolore più lieve.

Attimi

Ci sono attimi che giungono,
come acquazzoni d’estate,
violenti ed inattesi,
e poi se ne vanno,
altrettanto spediti,
liberando il pensiero
ed abbandonando ricordi

di emozioni libere
da ogni progetto,
di aria sospesa tra labbra stupite,
di echi di tempi mai stati,
di mani fluttuanti
in un mare di pace e di fuoco,
di dita congiunte in labili nodi ,
di gusto di vita ed ancestrali umori
spremuto ed assaporato,
di  atavico profumo
che, come dardo di fuoco,
trafigge la mente
infiammando l’anima,
di occhi ridenti
rapiti in esplorazioni curiose,
di parole sussurrate
tra sorrisi profondi,
di complicità inaspettate

che non mi disturbino altri pensieri

…nonostante tutto
ancora una volta
oggi voglio vivere l’attimo