Ri_allineamento

Un anno fa il mio definitivo ritorno a casa e a me stessa. Amo la mia vita, in tutte le sue forme e cerco, ogni giorno, di godere del meglio che mi può offrire ma quelle zampate sull’anima che nascondo sotto un sorriso sono li, in agguato, pronte a stringermi il collo e a togliermi l’aria. Mi sono impegnata molto, ho lavorato tanto su di me, ho imparato a rilassarmi, a non guardare indietro, a non programmare il domani. Ho imparato a volermi più bene, a coccolarmi, ad esigere rispetto, ho reimparato qualcosa che sapevo fare bene, un tempo, e credevo di aver dimenticato ossia stare sola senza sentirmi tale. Ma non ho imparato a diffidare, né delle persone né del mio cuore, perché pur avendo capito da tempo che entrambi mentono non sono ancora riuscita a farmene una ragione. Pensavo di aver raggiunto un buon equilibrio, nel mio disequilibrio, ma la strada è ancora lunga prima che io possa imparare a riallineare l’istinto e la ragione.

Risposte

Non sono in grado di capire troppe persone, il senso delle loro parole, il motivo dei loro comportamenti. Non sono in grado di crearmi una corazza abbastanza forte per difendermi dall’ipocrisia, dalla falsità, dalla cattiveria gratuita. Non sono in grado di smetterla di pormi inutili domande ma, almeno, ho imparato a smettere di attendere risposte.

Del micro e del macro

“Se ha etica, allora il valore dell’essere umano è 1. Se in più è intelligente, aggiungerei uno zero e il suo valore sarà 10. Se è ricco aggiungerei un altro zero e il suo valore sarà 100. Se, oltre a tutto ciò, è una bella persona, aggiungerei un altro zero e il suo valore sarà 1000. Però se perde l’uno, che corrisponde all’etica, perderà tutto il suo valore perché gli rimarranno solo gli zeri”.

(Risposta del matematico arabo Al-Khawarizmi a chi gli chiese il suo punto di vista sul valore dell’essere umano)

Vivo in questa società accompagnata da una sempre più grande disillusione e mi domando che senso abbia, per ognuno di noi, il termine “etica”. Osservo il mondo che mi circonda, i nostri comportamenti, l’uso ed il consumo delle persone e dei rapporti, con quella vena di disonestà latente sempre giustificata da un “è una piccola cosa… è colpa sua… sono fatto così… mi devo pur difendere…lo fanno tutti…”, l’aggressività fisica e verbale che riversiamo su chi non vede le cose dal nostro stesso punto di vista, la capacità di auto assolversi, sempre, molto più semplice del mettersi in dubbio, di fare un passo indietro, di chiedere scusa, di riuscire a vedere le conseguenze dei nostri comportamenti sulla vita degli altri. Osservo gesti che sembrano piccoli e banali che nascondono prepotenze, soprusi, ingiustizie in un vortice delirante di ego impazziti e di neo narcisi che si credono dei. Osservo tutto questo ogni giorno, sul lavoro, per strada, nelle relazioni sociali e, con maggiore sofferenza, in quelle personali. Non sono certa di quale sia il mio valore anche se mi sforzo, con tutte le energie, di valere almeno quell’ 1 perché noi siamo la società in cui viviamo e la somma di tanti zeri non può che essere zero.

La cozza

Era un mondo meraviglioso il suo, anche se lei poteva osservarne solo una piccola parte, costretta e legata, insieme alla sua famiglia, a quello scoglio che, da sempre, era stata la sua casa. Un mondo, attorno, che non era mai riuscita a visitare: Mediterraneo, le avevano detto si chiamasse.

Tantissime le specie che abitavano li sotto, esseri di ogni forma, colore e dimensione e lei osservava tutto, curiosa, ansiosa di imparare e di capire. “Tu sei una conchiglia”, le avevano detto i suoi fin dalla nascita, “devi esserne fiera ed orgogliosa”. E lo sarebbe stata, certo, se non si fosse lasciata condizionare dal giudizio degli altri. Non aveva mai invidiato nessuno, per carità ammirato, quello si, ma spesso si era sentita beffeggiare da sue consimili, che vivevano vicino a lei.

C’era, ad esempio, una tale Charonia Nodifera: come era grande e bella! Li, nei fondali tutti sapevano che il dio Tritone ci soffiasse dentro usandola come tromba per richiamare i suoi sudditi. Bianco-grigia, con flammule brune aveva quell’aspetto altezzoso donatole dal labbro incurvato all’esterno ed ornato di denti radi e di colore marrone. Poi c’era la famiglia delle Pectinidae, dalla forma a pettine; nobili ed altere, raccontavano che persino Venere, nascente dalla spuma, era stata sostenuta da una di loro e sospinta dal vento fecondatore di Zefiro fino alla riva. E poi c’erano le Ostriche: erano bruttine loro, a dire il vero, ma si vantavano di appartenere ad un ricco casato e che le loro lontane parenti del Pacifico fossero le uniche detentrici di misteriosi tesori dette perle, lacrime delle Naiadi solidificate o rugiada sfiorata dal tocco della stessa Venere.

E le vanitose sirene si ornavano di collane fatte di conchiglie, di ogni forma e colore, piccole e grandi, tutte, indistintamente, tranne quelle della sua famiglia. Anzi, la schernivano. “E tu saresti una conchiglia? Ma non lo vedi come sei brutta, così liscia e scura? Non servi a nulla, non darai mai gioia a nessuno, non sei bella e non conservi ricchezze. Sei proprio una cozza!”.

Ma lei non voleva credere a queste parole, sentiva, dentro di sé un grande cuore battere e continuava a pensare che anche la sua esistenza dovesse avere un senso, pur non riuscendo a capire quale. E poi un giorno accadde: vennero a prenderla, con delicatezza la raccolsero, la posero in acqua dolce togliendole quelle barbe fastidiose che l’avevano immobilizzata tutta la vita, facendola finalmente sentire libera, e le fecero il solletico con uno spazzolino rendendola lucida e brillante. La lavarono e la posero in un tegame, e quando, tra il calore ed il profumo di quel vino che le faceva compagnia, si dischiuse seppe, finalmente, che la cosa che contava davvero di lei non era l’involucro, non erano le ricchezze, ma il cuore che avrebbe reso felice qualcuno. La assaporarono ridendo, guardandosi negli occhi, utilizzando le mani per imboccarsi a vicenda, ritorno archetipico al contatto col cibo, e la sua anima fece nascere nelle loro nuove scintille.

Foto di anncapictures da Pixabay

La rivincita del polinomio

La mia pagella di terza media riportava la frase: “ragazza particolarmente portata per studi ad indirizzo umanistico o artistico”. In realtà il mio cuore era decisamente orientato verso la biologia e, soprattutto, quel mondo microscopico che, fin da ragazzina, aveva destato in me un’immensa curiosità. Ciò premesso, tutte queste valutazioni a nulla valsero in quanto gli unici parametri che presi in considerazione nella scelta delle superiori furono il fatto che mio fratello gemello avrebbe frequentato il liceo scientifico e che, all’epoca, per me staccarmi da lui sarebbe stato più o meno come togliere la bombola dell’ossigeno ad un malato di enfisema polmonare. Non ricordo gli anni del liceo come entusiasmanti, soprattutto gli ultimi; i problemi a casa erano molti e, forse anche per quello, non riuscii a vivere quel periodo con la spensieratezza tipica dell’età. Non sono mai stata una grande secchiona, diciamo che avendo anche altri impegni ed interessi ed essendo di indole piuttosto pigra, ho sempre cercato di applicare la regola del “minimo sforzo, massimo rendimento”. Di quel periodo ricordo nitidamente la professoressa di matematica che chiamerò “La Terribile” giusto per tutelare la sua privacy; tanto per dare un’idea di cosa ella abbia rappresentato per me posso dire che, talvolta, mi sveglio nel cuore della notte terrorizzata da un incubo in cui omaccioni vestiti di nero mi comunicano con fare minatorio che non posso svolgere la professione in quanto la mia laurea non è valida dato che, a causa sua, non mi sono proprio diplomata.

Vista con gli occhi di un’adulta “La Terribile” era solo una cinquantenne nubile, di sgradevole aspetto, non particolarmente brillante, di certo molto bigotta, probabilmente repressa e poco soddisfatta della sua vita in generale. Manteneva un atteggiamento decisamente più cortese con gli alunni appartenenti al sesso maschile, vestiva come Mary Poppins, senza tuttavia averne il sorriso simpatico e gentile, non si depilava le gambe e, secondo me, non dedicava neppure un’adeguata attenzione alla sua igiene orale. Svolgeva gli esercizi in classe sempre copiandoli da quel quadernetto scritto a matita che non abbandonava mai.

Vista con gli occhi di un’adolescente, per sua natura piuttosto insicura e per di più educata al rispetto delle persone e delle gerarchie in generale ella era la “professoressa”, una donna adulta, con il compito di insegnare a giovani menti nozioni sconosciute e, in un certo senso, di contribuire alla loro educazione; non mi ponevo il dubbio che potesse avere dei problemi, dando per scontata la sua buona fede, e ne subivo inerme le angherie, certa di non capirne il motivo ma pensando di meritarle. Se una persona nella mia vita è riuscita a farmi sentire inetta, poco intelligente, irrecuperabile e sfiduciata, questa è stata lei; non credo di averla odiata, non mi sono mai riconosciuta in questo tipo di sentimento per nessuno, nemmeno più tardi e per cose ben più gravi, ma certo l’ho detestata con tutte le mie forze ed ho avuto paura di lei. Interrogandomi mi diceva frasi tipo: “quanto dicono tu sia brava in lettere, tanto non capisci niente delle mie materie…”, “…sei proprio stupida”, “…non vedi che fai dormire tutti i tuoi compagni?”, “… tuo fratello si che è intelligente!” ed altre facezie del genere. Non riuscì mai a rimandarmi a settembre; ogni anno era una lotta sfinente all’ultimo mezzo punto per raggiungere la sufficienza ma ci arrivavo e credo che lei mi detestasse ancora di più, per questo.

A pochi mesi dalla maturità la mia ansia aumentò a dismisura e contattai un giovane studente d’ingegneria chiedendogli di darmi qualche lezione privata. Non so dire se fu perché il tizio aveva due splendidi occhi azzurri ed era decisamente galante con me o perché “La Terribile” aveva il potere di paralizzare il mio cervello, fatto sta che ne bastarono tutto sommato poche per aprire la mia mente ad un nuovo mondo. Tutti quei numeri che io avevo pedissequamente trascritto, quelle formule, quegli studi di funzione, avevano un senso! Non erano statici, non dovevo subirli…tutto sommato potevano essere visti come simpatici genietti che potevi mescolare usando le regole, certo, ma anche tanta fantasia, per trasformarli in altro. Una materia che avevo tanto detestato mi sembrava ora addirittura bella, e, nonostante tutto, stranamente semplice e intuitiva. Feci la pace con la matematica e, dal quel momento, non ebbi più alcuna diffidenza nei suoi confronti.

Quando l’altra sera, arrivata a casa della mia amica, ex compagna di classe e testimone di tutto ciò che ho fin qui raccontato, mi sono sentita dire “Micky, tu te li ricordi i polinomi? Fil non riesce a risolverne uno, ci abbiamo provato in mille modi…un nervoso” e, dopo tanti anni, mi sono accostata con un filo d’ansia a quei numeri, loro non mi hanno tradito; il denominatore scomponibile, il quadrato del binomio, il raccoglimento a fattori mi sono sembrati il giochino di sempre e la matita ha trasformato l’ammasso insensato nel risultato perfetto [1].

Sono sincera: il mio ego non si è controllato e non ho certo brillato per finezza quando, saltando dalla sedia, ho lanciato un urlo di soddisfazione, fatto con veemenza il classico gesto dell’ombrello ed esclamato a gran voce: “Terribile! Forse, alla fine, la stupida eri tu!”

(Basta_una_scintilla – 30 settembre 2008)

Dei maschi e delle femmine

Avremo avuto credo sette o al massimo otto anni io ed Alessandro, mio fratello gemello; a quell’epoca eravamo ancora una cosa sola, dove andava uno andava l’altro, quello che faceva lui lo facevo io e viceversa. Una sinergia costruttiva, direi.

Non siamo mai stati particolarmente timidi nei confronti dei nostri coetanei, forse perché questo essere due, diversi ma in stretta simbiosi, ci faceva in un certo senso sentire più forti. Lui era piccino, esile, capelli scuri, carnagione olivastra, due enormi occhi nocciola che ti guardavano con curiosità e divertimento. Io rotondetta, gli occhi verdi forse maggiormente insicuri dei suoi ed il viso da bambolotto incorniciato dai capelli biondi, apparivo probabilmente più debole di quanto fossi in realtà. Comunque non avevo bisogno, allora, di essere forte: c’era lui a difendermi, era il mio cavaliere. Ricordo quando, all’asilo, le maestre insistevano nel dividere i maschi dalle femmine con delle panchine poste trasversalmente in palestra e lui, come un marine, varcava tali blocchi, mai sufficientemente presidiati, per venire da me che lo accoglievo con la gioia di chi ha ritrovato una parte di sé.

Frequentavamo le elementari presso un collegio di suore. Quel giorno, durante la ricreazione, i bambini, mio fratello compreso, decisero di fare una gara di sputi. Io, ovviamente, facevo parte della squadra. Stranamente nessun bambino si lamentava mai del fatto che io non fossi “uno di loro”: ero con Alessandro e questo bastava per essere inserita in tutti i giochi che lui faceva e nella cerchia delle sue amicizie, con lo stesso senso di appartenenza. Ovviamente valeva il contrario e nessuna bambina si lamentava o si stupiva se Alessandro giocava con noi ad elastico o se provava a ricamare gli “imparaticci” a punto croce. Era come se tutti gli individui al di sotto dei dieci anni ci vedessero davvero come un essere unico ed interscambiabile, senza minimamente stupirsi di questa nostra interazione.

La gara di sputi si svolgeva in giardino su un pianoro rialzato dove c’era una piccola grotta con la madonna di Lourdes. Forse non eravamo molto eleganti ma rispettosi si, non si sputava verso la statuina, ci mancherebbe, era tanto carina e sorrideva sempre non dandoci l’impressione che stessimo facendo qualche cosa di sbagliato ma, al contrario, apparendo tollerante e divertita. Spalle alla grotta, si sputava a turno, e si segnava con un pezzetto di carta la lunghezza del lancio. Vinceva chi riusciva a fare i due tiri più lunghi.

D’un tratto si materializzò davanti a noi una delle suore incaricate della sorveglianza. “Vergogna! Tutti in classe, di corsa, e oggi niente merenda… ma TU”, disse puntando il dito verso me con disgusto e, mi sembrò allora, con un tono che sembrava proprio uno sputo… “TU meriti una punizione più severa perché sei una bambina e le bambine non devono fare queste cose, non diventerai mai una brava signorina, nessuno ti vorrà mai sposare da grande perché ti comporti come un maschiaccio. Due settimane senza ricreazione, in classe, a scrivere sono una signorina sulla lavagna!”.

“Se lei sta in classe ci sto pure io”, disse Alessandro guadagnando una tirata di orecchie e per risposta un “lo decido io che cosa fai tu, vai con i tuoi compagni”.

Tornare a casa quella sera fu faticoso; entrambi sapevamo di avere fatto un gioco che non avrebbe reso orgogliosi i nostri genitori e già questo bastava per farci sentire sufficientemente a disagio. Parlammo con loro, raccontando l’accaduto per filo e per segno e ci prendemmo la nostra bella sgridata e la giusta predica sul fatto che loro cercavano di educarci al meglio e di riflettere se, con tutti i giochi da fare, quello fosse proprio indispensabile ed opportuno. Non ci punirono ma i loro rimproveri e, soprattutto, gli sguardi che li accompagnarono, furono estremamente più convincenti di qualsiasi castigo avrebbero potuto infliggerci.

La mattina seguente ci accompagnò a scuola mio padre e prima di entrare in classe andammo tutti e tre dalla Superiora, un donnone enorme che stava rintanata in un buio ufficio quasi tutto il giorno. Ci sedemmo e sentii mio padre dire delle parole che mi resero infinitamente orgogliosa di lui e che non ho mai più dimenticato. “Madre, io le ho affidato la formazione dei mie figli. Non sono un maschio ed una femmina. Sono due persone. Se sbagliano lo fanno come individui, ed è giusto che siano puniti, ma entrambi, e nello stesso modo. Io e mia moglie cerchiamo di farli crescere rispettosi degli altri e delle regole ma uguali; non sono diversi perché di sesso diverso ma solo per le loro peculiarità.  Spero davvero di non dover più tornare da lei perché sono stati trattati in modo diverso: se sarò portato a pensare che è questa l’educazione che riceveranno qui non potrò fare altro che trovare un altro istituto che mi dia maggiori garanzie.”

Lo vidi proprio come un essere luminoso, in quel momento, grande ed invincibile: uscendo dal buio ufficio mi sembrò di camminare due centimetri sopra la terra.

Photo by Jude Beck on Unsplash

Elucubrazione notturna

Non ho paura di invecchiare, non ancora almeno, forse un giorno, chissà. Se sono mai diventata grande davvero non saprei dirlo, è un periodo questo in cui vivo tutto con una curiosità, con un desiderio di scoprire, conoscere, capire che, a volte, mi fanno risentire bambina. Sto cercando di vedere me stessa in modo diverso e, così facendo, vedo anche il mondo e la vita in modo diverso. Mi sono sentita schiacciata da troppi pesi e responsabilità, ho mantenuto vivi rapporti faticosi che mi logoravano credendo che quello fosse il mio dovere, ho lavorato con impegno e dedizione dando anche molto più di quanto mi venisse richiesto. Mi dicevo: sono fatta così, ma quel mio essere fatta così non mi faceva respirare. Arrivare al punto di pensare che troppi hanno bisogno di te ma che di te, in realtà, non importa molto a nessuno e non riuscire a trovare la forza per cambiare rotta è difficile, devi rimettere in dubbio tutto quello che è stato e, soprattutto, devi mettere in dubbio te stessa.  Non hai più alcuna certezza e capisci, con stupore, che non sono stati gli altri a usarti, a farti del male o a condizionare le tue scelte ma sei stata tu a permettere loro di farlo. Capisci che di tutte le responsabilità che ti sei presa sulle spalle hai trascurato la più importante, ossia quella verso te stessa. Ed è allora che provi a guardare le cose da un altro punto di vista e scopri con gioia che, anche se più di metà della tua vita se ne è andata, tutto quello che ti resta ancora da vivere è nelle tue sole mani.

© Rodney Smith

Oniricamente

Lei cammina tenendo per mano i suoi sogni. Sfiora pensieri nodosi e ricordi antichi, confonde sorrisi e lacrime che cadono dinnanzi ai suoi passi trasformandosi in corolle profumate prive di stelo. Ha un cappello di paglia, calato un po’ storto sul viso, l’ombra della cui tesa le fa osservare il mondo da una strana prospettiva, una parte a colori, una parte in bianco e nero. Cammina su una strada che ha già percorso sapendo di essersi persa, un tempo, ma non riuscendo a cambiare sentiero come se una forza a lei sconosciuta volesse indicarle la via. La strada è brulla, piccoli ciuffi di erba secca sul ciglio nascondono rari e meravigliosi boccioli arancioni che lei raccoglie stringendoli al petto e posandoli subito dopo, con estrema delicatezza, in un piccolo cesto. Non sa dove sta andando ma sa che quel raccolto è prezioso e continua a camminare tenendo per mano i suoi sogni.

© Josephine Wall

La macchina fotografica

Lei è una strana donna che si nutre di emozioni e vive di contraddizioni. Ha fatto tanta strada, mille passi, poi altri mille; alcuni in discesa, molti in salita, talvolta con i polmoni spalancati, altri in affanno, altri ancora quasi in apnea. E’ strana davvero questa donna, alla continua ricerca di sé osserva il mondo con i suoi occhi cercando di adattarli ad esso per capirlo un po’ meglio, senza mai riuscirci. Ha un umore mutevole, un po’ come le nuvole del cielo passa dal candore sorridente al grigio malinconico, al temporale estivo, al nero della tempesta; ama la vita in tutte le sue forme, anche le più dolorose, ma la vita non la capisce e rincorre pensieri che cambiano con lei. E’ moderna questa donna, nella sua vita reale, ma dentro è un cimelio antico e conserva nel cuore scatole di latta piene di immagini in bianco e nero e ninnoli colorati che non cambiano mai. Legge parole di altri e ne scrive di sue, questa strana donna, annodando e srotolando concetti senza mai renderli compiuti, un po’come Penelope con la sua tela. Ha una piccola macchina fotografica questa strana donna; lei sa benissimo che è un oggetto antico e che la qualità delle sue immagini non reggono il confronto con tanti telefoni di ultima generazione ma, attraverso il suo obiettivo, le sembra di poter scorgere luci ed ombre di sé, quasi come se l’inquadrare qualche cosa, prima dello scatto, l’accompagnasse nel suo infinito percorso di crescita e di ricerca. L’altra sera questa strana donna ha avuto da sua madre la macchina fotografica che papà le aveva regalato per i suoi settant’anni e che ha accompagnato i momenti gioiosi dei loro ultimi anni prima che lui se ne andasse. La strana donna chiude gli occhi e, sorridendo, li rivede, nella piccola stanzetta, fianco a fianco, lei, l’artista, a dire quali scatti conservare e quali modificare, lui, il tecnico, davanti al PC, a cimentarsi in una tecnologia nuova per entrambi tra contrasti, ritagli e chiavette USB. Da oggi la sua piccola macchina fotografica resterà nel cruscotto dell’automobile pronta a cogliere un attimo che sarebbe un peccato perdere ma si dovrà rassegnare a lasciare il posto d’onore alla nuova compagna perché quest’ultima porta con sé talmente tanti ricordi ed amore che la strana donna è convinta l’aiuterà a vedere cose fino ad ora non viste.