Forse nessuno di noi lo è davvero, di sicuro io non sono una persona perfettamente equilibrata. Sono estrema, piena di contraddizioni e vivo cercando di mantenere in equilibrio una mente razionale ed un istinto primordiale, viscerale, credo fondamentalmente animale. Quindi per onestà devo avvisare chi passerà da qui che questo luogo non è altro che il mio psicologo virtuale. Con annessi e connessi.
Una voce calda, a portare luce in giornate vuote. Vaporosi attimi di abbandono e di gioia. Istanti rubati, a placare la sete. Pensieri dispensatori di sorrisi. Carezze, a farti sentire finalmente lontana dal mondo. Curiosità, di mente e di cuore. Ma era solo un sogno ed i sogni non avvisano quando decidono che è ora di svegliarti né, tanto meno, chiedono il tuo parere.
Se cresci, orfano di madre e con un padre violento, unico ebreo in un distretto di italiani in una cittadina degli Stati Uniti degli anni quaranta, se non riesci a seguire i consigli dell’unico vero punto di riferimento della tua vita, ossia tuo fratello maggiore, puoi diventare un ragazzo violento, con una rabbia repressa che esplode in qualche cosa di irreparabile. Se fuggi dalle tue responsabilità, vaghi per il mondo, ti imbatti in qualcuno che ha fatto di un’ideologia il suo unico scopo di vita e ti aggrappi a questa ideologia come un’ancora di salvezza, iniziando si, a leggere e ad informarti, ma in modo unilaterale, senza spirito critico, perché il vuoto che hai dentro può essere riempito soltanto con qualche cosa di assoluto ed indubitabile, puoi diventare un comunista convinto ed un attivista sindacale. Se, per un colpo di fortuna, assomigli talmente tanto ad Abramo Lincon da essere preso per impersonificarlo in una manifestazione e questo ti porta a diventare una star radiofonica allora sei Ira Ringold.
Se sei una diva del cinema muto di Hollywood, ricca, bella, colta ma inadeguata per vivere nella realtà, ebrea talmente incapace di accettare la sua origine da non cambiare soltanto il nome ma da diventare antisemita, se sei una donna che ha sposato uomini assurdamente diversi sempre per riempire un vuoto, che ha accettato anni di matrimonio con un gay riuscendo ad uscirne solo grazie ad un amante moralmente discutibile, che ha cresciuto una figlia che la odia con ogni sua cellula e che è in tutto, fisicamente e psicologicamente tanto diversa da lei pur essendo egualmente instabile, allora sei Eve Frame.
Se queste due anime irrisolte e piene di contraddizioni, tanto diverse quanto problematiche si incontrano e si sposano, confondendo la passione e la necessità di scacciare i rispettivi demoni per amore, il disastro coniugale è più che annunciato ma se tutto questo si svolge in un’America in cui impera il maccartismo, un paese che premia i delatori, la bassezza, l’uso della stampa per denunciare e condannare senza appello, un paese in cui regnano sovrani un perbenismo ipocrita ed un senso di narcisismo sociale declinato in modalità distruttiva per il diverso da sé, allora il tutto diventa tragedia, per Ira, per Eve e per tanti che condividono parte delle loro vite.
Se sai raccontare tutto questo, insieme al percorso di crescita di Nathan Zuckerman, storico narratore di numerosi romanzi rothiani, in gioventù “discepolo” di Ira e alla capacità di lotta e rettitudine del fratello di Ira, Murray, se sai usare parole che creano una polifonia basata sulla pluralità dei punti di vista che rende complesso comprendere una realtà che cambia di forma ed aspetto a seconda dell’angolo da cui la si osserva, se sai inserire in tutto questo riflessioni importanti sulla letteratura e sul suo ruolo in una società in cui tutto è mercificato, allora la tua penna non è decisamente una penna qualsiasi.
Davvero non lo senti il rumore del vuoto? Le urla di quei visi dipinti, di quei rapporti stanchi, costruiti, assemblati per utilità e mantenuti in vita per la paura di lasciarli andare. Dare e avere, prendere, usare, consumare, buttare. I sorrisi forzati, le attenzioni interessate, le relazioni falsate da mille cose al di fuori di te. Superficie che soffoca ed affoga senza riuscire a raggiungere la salvezza della profondità. Davvero non lo senti il vuoto che urla? Uno, nessuno, centomila, maschere, finzioni ti girano intorno senza riempire mai. Davvero non le senti le urla del vuoto dentro di te?
Sfoglio il giornale di ieri facendo colazione e leggo qua e là notizie di altri quotidiani on line riflettendo su una considerazione di un radioascoltatore trasmessa ieri mattina a “Prima pagina” su Rai radio 3. Questa persona contestava alla giornalista, ed ai giornalisti in generale, di utilizzare il termine “Recovery Fund”, ossia “Fondo di recupero” anziché quello corretto di “Next Generation”, ossia “Nuova generazione” presentato a giugno dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ed avente lo scopo di ripartire dopo l’emergenza Covid-19. A parte l’impiego di termini anglofoni che poco dicono ogni giorno a tanti di noi, non avevo mai riflettuto bene sulla differenza tra queste due definizioni. In realtà mentre la prima fa pensare ad un investimento volto a sanare qualche cosa di danneggiato, a mettere toppe e riempire vuoti stando sostanzialmente fermi, il secondo è fortemente e decisamente proiettato verso il futuro, con una visione più ampia, non legata soltanto al “curare” ma anche, e soprattutto, al “cambiare” ampliando la nostra ottica in visione di un’Europa più sostenibile, verde, digitale e, mi piacerebbe pensare, equa. Guardo il nostro Paese, la nostra classe dirigente, osservo la vita di tutti i giorni, le strade, le infrastrutture, le persone. Noi non guardiamo al futuro; vivacchiamo alla meno peggio, mettiamo toppe su ciò che si rompe, siano strade, ponti, attività economiche spesso sprecando risorse perché quelle toppe durano poco e, quando cedono, creano danni ancora maggiori. Noi compriamo banchi a rotelle, in bella plastica inutile e non riciclabile, perdiamo tempo in sterili polemiche, diamo fondi per l’acquisto di macchine diesel, euro 6, va bene, ma sempre diesel, perdiamo mesi a dibattere sterilmente e facciamo poco, troppo poco per le generazioni che verranno, lasciandoci soffocare da una burocrazia ormai anacronistica e aimè, da una superficialità temo atavica. Noi siamo fondamentalmente disonesti, giustifichiamo le nostre piccolezze con il fatto che “così fan tutti”, ci lamentiamo senza mai agire di persona, non rispettiamo le regole perché sappiamo che non saremo puniti, a meno di non essere particolarmente “sfigati”. Continuo a sentire parlare di “modello italiano”, di quanto siamo belli, bravi, creativi, che l’Italia è la madre della cultura e delle grandi menti della storia. Sarà anche tutto vero, se continuiamo a guardare indietro, ma Leonardo oggi forse se ne andrebbe in Svizzera a fare le sue ricerche, i nostri ragazzi, ammesso che la scuola italiana possa veramente formare ad un mondo nuovo, non trovano i necessari stimoli perché non vedono un futuro reale che possa giustificare i loro sforzi, le realtà economiche soffocano e, in tutto questo, continuiamo a tappare buchi, sprecare risorse, discutere sterilmente invece che agire, con una classe politica, mi spiace dirlo, piccola, ignorante e, soprattutto, incompetente che però, ricordiamolo, è la maggioranza di noi ad aver votato. Non possiamo più stare fermi, non possiamo più sprecare risorse, dobbiamo cambiare adesso perché forse il tempo che abbiamo a disposizione sta per scadere. Io non sono nessuno, non ho figli e non mi devo preoccupare del loro futuro ma amo ancora, se non proprio le persone, il genere umano, amo il nostro Paese, continuo ad essere un’europeista convinta e penso davvero che ognuno di noi debba trovare la forza di cambiare il suo punto di vista, smetterla di recriminare su ciò che è stato, smetterla di aspettare solo che siano gli altri a fare qualche cosa. Le parole sono importanti perché danno un senso alle nostre prospettive e se, personalmente devo scegliere tra un Fondo di Recupero ed una Nuova Generazione scelgo, di sicuro, quest’ultima.
Così diceva mia nonna Gisa che, comunque sia, si lodava spesso. Al contrario mamma e papà non hanno mai avuto la tendenza a vantarsi dei propri meriti, anzi, ed hanno cresciuto noi allo stesso modo. Senso del dovere e della responsabilità; così, quando prendevamo un bel voto alle superiori, papà non ci lodava ma ci diceva, sorridendo, “hai fatto LA META’ del tuo dovere” e quando, più avanti, superavo un esame all’università lui esclamava “Brava!” ma seguiva subito un “…a quando il prossimo”? Mamma è sempre stata più gratificante, da questo punto di vista, i suoi abbracci erano il caldo riconoscimento di un risultato ottenuto. Così, tra un’educazione in cui il proprio dovere ed il rispetto di pochi ma fondamentali principi di vita erano base imprescindibile e la mia indole sono cresciuta, in ambito lavorativo, e forse non solo, precisa, puntigliosa, diciamo pure rompiscatole, sempre con un dubbio da approfondire e risolvere, testarda ed ahimè, onesta, caratteristica che in ambito lavorativo non sempre si volge a proprio favore. Sono sempre stata aiutata molto, nel mio lavoro, da una grande memoria, dalla capacità innata di schematizzare e catalogare, da una naturale propensione all’utilizzo di supporti informatici e, soprattutto, dal non aver mai perso la voglia di studiare. L’unico vero problema è che per me quello che faccio non è mai fatto abbastanza bene, è sempre migliorabile, ed ho dovuto darmi regole per definire tempi e metodi per evitare di fossilizzarmi su particolari che, data la mia natura, tenderebbero a farmi perdere di vista l’importanza dell’insieme. Questi mesi sono stati pesantissimi, ho dovuto ingoiare rospi ed orgoglio, mi sono intestardita e non ho mollato l’osso, ho fatto tutto quello che secondo me era utile ed indispensabile, ho fatto anche di più ed ho raggiunto un ottimo risultato per la mia azienda ma, soprattutto, per me stessa ed ho avuto un riconoscimento della mia professionalità e di tanti anni di studio ed impegno. Per cui perdonatemi: questa volta ho proprio voglia di imbrodarmi perché sono stata brava e sono orgogliosa di me stessa. Ma dato che non amo il brodo mi inzupperò…
Ci fu un giorno in cui, svegliandomi, mi ritrovai davanti ad un uomo che mi fece paura; me ne andai e non feci ritorno. Provare paura per l’uomo che credi di amare e con il quale hai condiviso un tratto della tua vita è qualche cosa che ti lacera dentro. La cosa assurda è che la prima domanda che ti poni è: cosa ho fatto per scatenare questa rabbia così violenta? La prima reazione è quella di colpevolizzarti. La seconda è quella di fingere, nascondere tutto alla tua famiglia, agli amici, per non addolorarli, per vergogna, per orgoglio, addirittura per proteggere lui dal giudizio degli altri, senza una logica, senza una ragione. La violenza segue tante strade, può essere fisica, psicologica, manifesta o latente ma è sempre violenza. E l’amore, con tutto questo, non ha nulla a che vedere. La mia esperienza fu sconvolgente per cui non riesco neppure ad immaginare cosa voglia dire subire violenza da parte di un padre, un marito, un compagno, un amico, un estraneo; non posso dare consigli ma posso mettermi a disposizione, per tutte quelle donne che conosco e che, magari, soffrono in silenzio, che subiscono pensando di non avere nessuno con cui parlare, che non riescono a trovare la forza per liberarsi da un rapporto malato. Posso chiedere alle donne di smetterla di giudicare, denigrare, rivolgersi ad altre donne con epiteti orribili, quel “troia”, “puttana” che dovrebbero essere ormai considerati medioevali. Così non funzionerà mai. Se noi per prime non impareremo a rispettarci, ad essere coese, a sostenerci vicendevolmente, non potremo mai uscire da tutto questo e lasceremo spazio pericoloso ad omuncoli come Feltri, del quale non riporterò le parole scritte sulla ragazza stuprata da Genovese, in quanto credo che fare da cassa di risonanza ad un saccente egocentrismo maschilista tanto immorale sia come diffondere un veleno alle radici della nostra società evidentemente già troppo ammalata.
“Non cesserò mai di stupirmi che questa carne sostenuta dalle sue vertebre, questo tronco congiunto alla testa dall’istmo del collo, con le sue membra simmetricamente disposte intorno, contengano e forse producano uno spirito che si serve dei miei occhi e dei miei movimenti per palpare… Ne conosco i limiti e so che il tempo non gli mancherà per andar più lontano, e la forza, se per caso il tempo gli fosse concesso. Ma esso è, e, in questo momento, è colui che E’. So che esso sbaglia, erra, interpreta spesso a torto la lezione che gli impartisce il mondo, ma so anche che porta in sé di che scoprire e talvolta rettificare i propri errori. […] So che non so quel che non so; invidio coloro che sapranno di più, ma so che anch’essi, come me, avranno da misurare, pesare, dedurre e diffidare delle deduzioni ottenute, stabilire nell’errore qual è la parte del vero e tener conto nel vero dell’eterna presenza di falso. Non mi sono mai ostinato su un’idea per timore dello smarrimento in cui cadrei senza di essa. Né ho mai condito di menzogne un fatto vero per rendermene la digestione più facile. […] Ho avuto anch’io i miei sogni, e non gli attribuisco valore d’altro che di sogni. Mi sono guardato bene dal fare della verità un idolo; ho preferito lasciarle il nome più umile di esattezza. I miei trionfi e i miei pericoli non sono quelli che la gente s’immagina; ci sono altre glorie oltre la gloria e altri roghi oltre il rogo. Son quasi riuscito a diffidare delle parole. Morirò un po’ meno sciocco di come son nato.”
Oggi, passeggiando nel bosco, la mia mente è tornata, non so come, ai miei diciott’anni ed è stato, per un po’, come camminare in mezzo ai ricordi. Mi sono rivista, con le mie sorelle, mentre ci facevamo a turno le mèches con le cuffie di plastica, l’uncinetto, quei tossici preparati all’ammoniaca, ridendo delle macchie ma comunque orgogliose del nostro biondo fai-da-te. Ho visto le forbici correre sulla stoffa, intorno al modello che mi aveva fatto mamma, a ritagliare gonne e pantaloni che poi avremmo cucito insieme, chiacchierando e facendomi pensare che, se soldi non ne avevo, certo vestiti come i miei non ne avrebbe indossati nessun’altra. E ho ricordato quel maglione: lo avevo fatto a maglia rasata, tre strisce orizzontali, quella più bassa bianca, l’intermedia grigia chiaro, l’ultima di un grigio scuro, tendente al nero e, su quelle basi, avevo poi ricamato un mondo di sogno. C’erano casette dai tetti innevati con luci calde che uscivano dalle finestre, abeti, una slitta e tanta neve che cadeva lenta e svogliata a ricoprire il tutto. Mi sono rivista a cucinare chili di pasta e teglie di wurstel con il formaggio perché la carne costava troppo. Ho rivissuto quel Natale in cui, non avendo la possibilità di farci regali, ognuno di noi aveva impacchettato piccolissime cose di tutti i giorni ed aveva scritto biglietti teneri, o buffi; riempimmo con queste cose un enorme cesto di vimini trascorrendo poi un intero pomeriggio ad aprire, leggere, commentare a turno, come se avessimo fra le mani i tesori più grandi che avessimo mai visto. Ho sorriso pensando a quanto oggi tutto questo potrebbe forse sembrare assurdo e faticoso consapevole e grata della forza e della ricchezza che invece mi ha regalato
Due passi per respirare, pensare, rincorrere il senso di qualcosa che, come direbbe Vasco, un senso non ce l’ha. Il lusso del venerdì mattina, il quotidiano in forma cartacea, con quel suo profumo antico che non muta mai. Il paese è deserto, le sue 827 anime sembrano nascoste tra le mura di questa mattinata novembrina dal tempo incerto, come il mio sentire. Nel silenzio le ambulanze, sulla statale e sull’autostrada che ora sembra così vicina. Troppe. Mi sembra di sentire soltanto quelle. Poi, di colpo, una voce di donna, squillante ma al contempo calda e, mi pare, piena d’amore: “Come siete bravi!” seguita da tante risatine infantili. Alzo gli occhi verso la finestra della scuola con un sorriso. Mi incammino verso casa con in mano il giornale e nel cuore il pensiero a cui davo il buongiorno e la buonanotte e che ora non è più.
Leggendo il giornale mi soffermo, talvolta, su notizie che mi lasciano interdetta. Ieri, scorrendo la Repubblica, sono stata colpita da quella della quale mi accingo a scrivere non riuscendo proprio ad astenermene.
A Londra è stata inaugurata la statua che commemora Mary Wollstonecraft. Chi era costei? Per farla breve “soltanto” una donna, vissuta tra il 1759 ed il 1797, che, autodidatta, divenne filosofa e scrittrice pubblicando, nei suoi soli 38 anni di vita, alcuni libri tra i quali uno, dal titolo “A Vindication of the Rights of Woman” che le valse di essere considerata come la fondatrice del femminismo liberale. Che poi questa Mary sia stata anche la madre di quella Mary Shelley che nei primi anni dell’ottocento riuscì a pubblicare, tra moltissimi altri, anche il suo meraviglioso Frankenstein con il proprio nome anziché con quello del marito, come ai tempi si usava, non mi sembra notizia irrilevante.
Ebbene, nella modernissima Londra del 2020, dopo secoli di noncuranza nei confronti della signora Wollstonecraft e dopo un decennio di raccolta fondi viene finalmente scoperta “l’opera” della scultrice Maggi Hambling incaricata di renderle in tal modo omaggio. Quello che vedete nella fotografia è il risultato di tanto ingegno. So di non essere una critica d’arte e di non avere competenze a tale proposito, ma, da un punto di vista esclusivamente estetico, questa cosa la trovo terribile anche se non mi sarei spinta a giudizi letti su altre testate e che qui vi riporto in quanto il monumento in questione è stato paragonato da alcuni ad esempio ad una “Barbie svestita” o, e devo ammettere che questa mi è piaciuta davvero, ad una “decorazione di Natale da sito porno”. Non ho trovato molto su quanto riportato dalla scultrice a parte il fatto che ha sostenuto di non aver voluto rappresentare la Wollstonecraft storica quanto “ogni donna”: «Il punto è che deve essere nuda perché i vestititi definiscono le persone. Per quanto mi riguarda, ha più o meno la forma che tutte vorremmo avere».
Ora, gentilissima signora Hambling, a parte il fatto che io sono donna e che quella forma non la vorrei proprio avere, in cosa esattamente di questo parto della sua arte noi donne dovremmo riconoscerci? Dove dovremmo cogliere lo spirito di una donna che secoli fa, pare, sia stata molto più moderna di lei?
«È tempo di compiere una rivoluzione nei modi di esistere delle donne – è tempo di restituire loro la dignità perduta – e fare in modo che esse, come parte della specie umana, si adoperino, riformando se stesse, per riformare il mondo.» (Mary Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman)
Questo scrisse la signora Wollstonecraft nel 1792. E lei ora crede di rendere omaggio alla sua persona con quest’opera d’arte? “I vestiti definiscono le persone”, posso concordare con lei, ma in che cosa una donna nuda, con un fisico davvero poco settecentesco, con un pube al vento ricoperto da foltissima peluria dovrebbe ricordare ai passanti il valore della persona, qualora la conoscessero, o incuriosirle tanto da approfondirne la conoscenza? Tralasciamo che non esiste ancora alcuna vera parità di diritti nel nostro bel mondo occidentale, ma mi domando se lei, presa dalla sua vena creativa, non sia stata minimamente sfiorata dal fatto che migliaia di donne nel mondo un vestito ancora non se lo possono proprio scegliere, perché sono coperte da un burka, o perché sono spogliate e vendute, e picchiate. Chissà se l’ha sfiorata il pensiero che ancora si giustificano violenze sessuali perché la vittima si è vestita come cavolo voleva “istigando” in tal modo alla violenza subita.
Sa come mi sarebbe piaciuta una statua che rappresentasse Mary Wollstonecraft? Una donna, in vestiti dell’epoca, con la sua bella cuffietta che stringe, in un unico grande abbraccio tante donne, di ogni età, forma e colore, vestite nei modi più diversi, dalla contadina, alla scienziata, dalla pornostar all’astronauta, che sorridono tenendosi per mano.