Interazioni

Lo spazio ed il tempo. Osservo quella stella così luminosa e so, che se fosse molto distante, potrebbe essersi già spenta, tanto tempo fa. Davvero si possono trascurare le interazioni tra diversi pianeti? E noi non siamo forse come piccoli pianeti e corpi celesti che ruotano a distanza? Mi domando se la luce che mi attraversa arrivi da qualche cosa di vivo, che si è già spento o che non è mai stato.

Perché?

I gusti sono gusti in tema di libri e possono essere migliaia variando in base al genere, allo stile, al racconto, forse anche a quello che ognuno di noi si aspetta di trovarci. Liala non mi ha mai attratto ma, certamente, ha nutrito generazioni di lettrici appassionate e non ci vedo nulla di male, anzi. Però una domanda vorrei farla perché proprio non riesco a togliermela dalla testa. L’oggetto è il libro “La cacciatrice di storie perdute” della scrittrice Sejal Badani; cominciai a leggerlo quest’estate, scelto da una prova di abbonamento a Kindle Unlimited che non rinnovai non riscontrando, in questo tipo di offerta, nulla che fosse per me significativo. Abbandonai anche il libro, evento per me molto raro, e da qui la mia domanda. Non sto a raccontarvi la storia, Google sarà certamente più bravo di me, dato che mi sono fermata molto prima della fine, vi racconterò perché l’ho abbandonato e qual è la domanda che mi è sorta dalla sua parziale lettura. Bestseller internazionale, libro più venduto in Amazon nel 2019, bla bla bla, ok, arrivo al punto. Sto leggendo della nonna della protagonista, siamo suppongo intorno alla metà degli anni ’30, in India, in pieno Colonialismo, Ghandi e le sue rivolte si stanno delineando all’orizzonte. La donna, sposata giovanissima naturalmente con matrimonio combinato, inventa storie e scrive in segreto e bla bla bla andando per via un bel giorno vede che gli inglesi stanno costruendo una scuola nella quale i bimbi, naturalmente, studieranno in inglese. E che fa la protagonista? Naturalmente si mette a chiacchierare con un militare inglese sempre per via, davanti agli occhi di tutti e bla bla bla, si danno del tu (ma, mi dico io, sarà pure tradotto da cani e visto che l’autrice, di origine e nome indiani, è però un ex avvocato newyorkese magari il traduttore ha interpretato in modo un po’ libero quel you) e bla bla bla. In quattro e quattro otto il tizio invita la tizia non solo ad andare a scuola ma addirittura ad insegnare ai bambini le sue bellissime storie. Sono esterrefatta. Mi trasferisco in Google e faccio qualche ricerca. Giudizi dei giornali: entusiasti. Giudizi dei lettori: entusiasti. Cerco una piccola voce fuori dal coro che dica…beh, scusate, secondo me in quegli anni in India che una donna sposata si mettesse a chiacchierare per strada con un militare Inglese dandogli del tu, diventandone immediatamente amica e poi altro (ma io questo lo immagino solo perché non sono andata avanti) non è molto credibile, anzi, mi fa girare un pochino le palle…Nulla, nemmeno una piccola voce. Quindi la mia domanda è: perché?

Una donna del Sikkim porta un mercante britannico sulla schiena. Bengala Occidentale 1903 circa. Fonte A British merchant being carried by a Sikkimese lady. (centerblog.net)

Niente caffè per Spinoza di Alice Cappagli

Ho letto molte recensioni su questo romanzo che lo hanno definito banale, vuoto, inutile. Stranamente, io che sono una strapazzatrice di testi, puntigliosa rompiscatole amante di libri che sembrano mattoni, sia per il loro peso fisico che per quello del contenuto, l’ho trovato invece piacevole proprio in quanto catarticamente leggero, non di quella leggerezza che fa binomio con vacuità ma di quella che accarezza lievemente l’anima. Forse a trarre inizialmente in inganno il lettore creando false aspettative è il titolo che fa pensare ad una sorta di trattato sulla filosofia come fu, penso ineguagliabile, il mondo di Sofia di Jostein Gaarder pubblicato nei primi anni ’90. Spolverando la superficie dai miei pregiudizi, abbastanza snob, ne sono consapevole, mi sono approcciata serenamente a questo libro e devo ammettere che non mi è affatto dispiaciuto. Il prendersi per mano, al fine di sopperire alle rispettive necessità, di due esseri tanto diversi per cultura e vissuto come un ex professore di filosofia privo della vista ed una giovane donna in piena crisi coniugale priva di autostima e di indipendenza porta ad un percorso di comprensione dell’altro, di crescita e di perdono. Piccoli brani letti ad alta voce a chi non può vedere ma che sa ripescare nella sua memoria quasi tutto ciò che serve, tra il profumo di caffè e zucchine travestite per non essere riconosciute, la presa di coscienza del voler e poter essere diversi da quello che molti si aspettano da noi, tra un piatto di lenticchie ed un minestrone, la filosofia, che si fa semplice per i semplici, spunto di riflessione sulla vita in mezzo al profumo di soffritto. Non so che dire, non trovo nulla di banale in questo tipo di semplicità. Forse non sarà il capolavoro del secolo ma è un libro ben scritto che fa sorridere e riflettere, un testo in cui predomina la luce, quella del sole di Livorno che entra prepotentemente dalle finestre e quella della curiosità per i misteri della vita e per le parole di chi può aiutarci a scoprire un germoglio in noi che aspetta soltanto di fiorire.

Il supplizio del legno di sandalo di Mo Yan

I miei primi approcci con la cultura cinese in letteratura furono i libri di Pearl S. Buck e, in parte, di W. Somerset Maugham con “Il velo dipinto” e “Acque Morte” ma Mo Yan è stato l’autore che realmente mi ha permesso di entrare più in profondità in un universo di cultura così tanto dissimile dalla nostra da risultare da una parte incomprensibile e, dall’altra, affascinante ed avvolgente destando così in me una curiosità infinita per quel mondo. Tutti i libri da me letti di questo autore hanno sempre abbinato una fascinazione ad una difficoltà di comprensione, non tanto del testo in sé, anche se non si tratta mai di una scrittura fluida e semplice, quanto dei secoli di storia, tradizione, cultura e miti che, a mio parere, è davvero difficile per noi occidentali assimilare e, spesso, condividere. Anche per questi motivi ritengo che in nessun libro scritto da un occidentale potremmo trovare un così profondo equilibrio tra orrore e poesia come quello che si nasconde tra le pagine del “Supplizio del legno di sandalo”, un equilibrio tra due pilastri della cultura cinese, il teatro e la tortura con continui passaggi dalla commedia al dramma, dalla spaventosa concretezza del reale alla soavità dell’immaginazione, alla potenza del sogno, all’indipendenza della fantasia ed all’intensità del desiderio. Sono i primi anni del ‘900, siamo nel distretto di Gaomi, nella provincia dello Shandong, luogo-simbolo per lo scrittore che ne fa una sorta di archetipo del Paese; la Cina è squassata da un caos politico che precederà la fine della dinastia imperiale Qing ed imperversa la rivolta dei Boxer sollevata dalla Società dei Pugni e dell’Armonia contro la presenza colonialista delle potenze straniere. In questo contesto Mo Yan narra la storia di Sun Bing, ex attore e cantante dell’opera dei gatti, che si ritrova, quasi inconsapevolmente, alla guida di un gruppo di ribelli decisi ad affrontare, in una lotta impari, i soldati tedeschi impegnati nella costruzione della ferrovia per la quale sono espropriate terre ai contadini della zona; Sun Bing sarà catturato e condannato a morte per mezzo del supplizio del legno di sandalo appunto, compiuto ad opera del suocero, il boia imperiale Zhao Jia che, con arte ed esperienza, uccide infliggendo il massimo dolore possibile perché quello che le alte gerarchie dell’impero vogliono è proprio che egli cessi di essere persona per divenire strumento principe dell’oppressione. Una storia d’amore, dolore, ribellione e tortura, un microcosmo di personaggi perfettamente definiti e descritti che consente all’autore una narrazione a più voci e a noi di entrare in sintonia con ciascuno di essi e di comprenderne, almeno in parte, il motore trainante ed i tormenti che ci troviamo a condividere con la bellissima figlia di Sun Bing, Sun Meiniang, dai piedi grandi perché mai fasciati come da tradizione, il di lei marito nonché figlio del boia, ed il magistrato Qian Ding che ama sinceramente il suo Paese e nutre una passione travolgente per Sun Meiniang. E la magia del racconto si sviluppa anche attraverso la combinazione tra l’uomo e l’animale, umanizzato grazie alle mille similitudini di cui è ricca la lingua cinese: il topo coraggioso che lecca il culo al gatto, il rospo che da solo vuole reggere un letto, i draghi che si divertono con le perle. Uomini che diventano animali grazie ad un magico baffo di tigre, il boia, che è una pantera nera dai lucidi e inesorabili artigli, la giovane e disinibita moglie vista come un’enorme serpente bianco che ti avvolge soffocandoti con le sue spire, cani, maiali, lupi, scimmie, orsi, che sono uomini sia quando se ne riesce a vedere magicamente la vera natura sia quando ci si traveste per recitare i racconti eroici della tradizione.
“Le lunghe descrizioni dei terribili supplizi che si trovano in questo libro hanno lo scopo di far conoscere al lettore la barbarie e gli orrori che si sono verificati nel corso della storia, per risvegliare in lui un cuore compassionevole”, così l’autore scrive nella nota pubblicata alla fine del libro. È la verità: le descrizioni sono talmente reali, dettagliate e raccapriccianti che credo sia inevitabile, a tratti, sospendere la lettura, respirare, forse asciugarsi una lacrima, provare un senso reale di nausea e farsi prendere dal desiderio di desistere ed abbandonare. Ma non è che le cose che non guardi, non leggi, non approfondisci non esistono, semplicemente a, volte, manca il coraggio per volerle vedere, per cui si, credo che per arrivare alla fine di questo libro ci voglia un po’ di coraggio, l’accettazione della crudeltà dell’uomo che in parte sta in ognuno di noi; perché tra i personaggi e la violenza, che è poi anche la vera protagonista di tutta la storia, spicca la denuncia dell’apatia di chi al male assiste senza fare nulla e questa credo sia una malattia che affligge anche la nostra società.

Il portale

Si ritrovò a scrutare la sua immagine riflessa nella vetrina. Nulla di femminile, ormai, in quella figura: la schiena flessa, il viso scarno e marchiato da rughe profonde, il corpo, ammasso di pelle e di ossa, in quei vestiti logori ed informi che la ricoprivano senza donarle calore. L’olezzo che emanava non poteva sentirlo ma lo leggeva nelle smorfie dei passanti: era consapevole di odorare di sporco, di strada, di vino; sapeva di avere il sentore della povertà e della disperazione. Era stata una bella donna, un giorno, quando laureata e con un buon lavoro, aveva scelto di abbandonarlo per dedicarsi a Carlo e ad Elisa, quella piccola creatura fragile nata dal loro amore. C’erano stati giorni felici ed attimi di serenità ma erano tanto lontani da sembrare, a volte, più una fantasia che un ricordo. Un giorno suo marito se ne era andato; non le aveva chiesto la separazione, non le aveva parlato, semplicemente era sparito. Non seppe mai dove fosse andato, se avesse incontrato un’altra donna, se non fosse stato in grado di reggere il peso di quella figlia tanto debole e bisognosa di cure: lui scomparve dalle loro vite insieme al denaro, al suo cuore ed alle speranze. Lei lavorò presso una cooperativa di pulizie per pochi soldi, di giorno e di notte, per mantenere le cure costose a quella figlia, nessun altro con loro, nel bene e nel male. Non fu abbastanza ed Elisa volò in cielo in una mattina di tarda primavera. Ed in quel momento lei si perse come una piccola barca in un oceano agitato: nessuna certezza, cominciò a bere pensando di trovare nell’alcol un conforto alla disperazione incolmabile e smarrendo invece il contatto con la realtà, con le poche persone a lei vicine, perdendo il lavoro ed il rispetto per sé stessa. Nei rari momenti di lucidità pensava ai suoi sogni di ragazza senza capacitarsi di essere divenuta quello che ora era: una senza-tetto, un’anima sola in balia di quella enorme città. C’erano tante persone che si occupavano di dare da mangiare a quelli come lei: individui buoni e caritatevoli che dedicavano parte del loro tempo libero al servizio dei meno fortunati. No, non era difficile trovare un posto per mangiare. Ma dormire, quello si era un problema per tutti ma per le donne in particolare: i dormitori pubblici erano sempre troppo pieni di gente e di pericoli, le stazioni controllate dalla polizia, le metropolitane chiuse con quelle sbarre fredde, che a toccarle veniva voglia di andare in prigione per avere almeno un letto in un posto caldo e sicuro ove distendersi e, finalmente, riposare davvero. Ma nonostante tutto lei non si era mai venduta, non aveva mai rubato, aveva fatto del male, certo, ma solo a sé stessa. E così, ogni notte, cercava un posto nascosto e diverso dove, tra quei cartoni che non abbandonava mai, poteva assopirsi a tratti, mantenendosi vigile, quando il vino bevuto non era abbastanza per farle perdere completamente il controllo. Quella era la notte di Natale e cominciò a nevicare; aveva tanto freddo e necessitava di un posto per ripararsi. Vide tutte quelle persone all’esterno dalla chiesa; entrò, a passi lenti, con grande rispetto. Le luci basse, il profumo d’incenso, le candele che si riflettevano sugli ori delle cornici e degli addobbi, quelle panche di legno, dall’aria sicura. Frammenti di ricordi remoti provenienti da tempi lontani: quel prete che parlava a voce bassa e convinta… “…Fede, speranza, carità…”, …”la Casa del Signore”…”… Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. Si assopì. Poi, d’un tratto, il silenzio ed uno strattone al braccio.


“Esci da qui, devo chiudere”.

“La prego, ho tanto freddo e tanta paura…”

“Vattene barbona, questa è una chiesa, un luogo sacro, non è un posto per dormire!”

Appoggiò la schiena stanca a quel portale ormai chiuso che raccontava tante storie: c’erano un uomo nudo in mezzo alla piazza che regalava i suoi vestiti ai poveri, un cavaliere che smontava dal destriero per porgere il mantello ad un vecchio, una donna che asciugava dei piedi con i propri capelli. Si addormentò e vide, in mezzo a tanta luce, Elisa che le porgeva la mano. Sorrise appena in quel freddo ormai mortale: finalmente sarebbe stata di nuovo libera.

Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. (Luca, 12, 47)

Foto di Anne-Onyme da Pixabay

L’odore acido di quei giorni di Paolo Grugni

Ci sono libri che non ti aspetti, nei quali ti imbatti per caso, per via del passaparola, per un collegamento di pensieri e che ti lasciano la curiosità di approfondire, capire, continuare a cercare. Per me “L’odore acido di quei giorni”, letto pochi mesi fa, è stato anche questo, lo stimolo ad approfondire fatti che si svolsero in Italia tra il dicembre del 1969, con la strage di piazza Fontana, e la fine degli anni ‘70 e che mi rendo conto di conoscere in modo davvero superficiale. Mio padre era un appassionato di storia e ripeteva spesso che il presente può essere capito (e forse guarito?) soltanto analizzando il passato; non condividevo questa sua passione da adolescente ma mi è rimasta come eredità crescendo ed i pensieri che mi accingo a scrivere sono forse una specie di lettera per lui con il quale mi sarebbe piaciuto moltissimo poter discutere di questo libro.
Non saprei esattamente come definire “L’odore acido di quei giorni”, un romanzo giallo-politico mi sembra il modo migliore. Il protagonista, Alessandro Bellezza, ogni mattina esce all’alba per svolgere il suo bizzarro lavoro consistente nel recuperare dall’asfalto i cadaveri degli animali ammazzati dagli automobilisti al fine di evitare ulteriori incidenti in una delle tratte più pericolose dell’Emilia. Non ha sempre svolto questo mestiere Bellezza; ex chirurgo vicino agli ambienti di estrema sinistra ha aiutato brigatisti feriti, tanto da essere soprannominato il Chirurgo rosso; non è stato in carcere, ma è stato radiato dall’Ordine professionale perdendo tutto, famiglia compresa. In questa sua nuova vita, la sera del 15 dicembre 1976, ai margini della strada trova una donna apparentemente morta ma che morta non è; la cura, in un cascinale isolato dalla folta nevicata di quell’anno. Un piccolissimo spoiler credo di potermelo permette, poi lascio a chi sarà incuriosito la lettura del testo, perché di un giallo si tratta e raccontarne la trama sarebbe un peccato non veniale: la giovane donna è una poliziotta infiltrata tra i terroristi degli ambienti di estrema destra.
Grugni ci porta in un’Italia caratterizzata dagli scontri tra i giovani di sinistra e le forze dell’ordine, dopo l’uccisione in via Mascarella di un manifestante militante di Lotta Continua, dalle manifestazioni studentesche ed operaie, dalle rivendicazioni delle donne e dalle dure repressioni delle proteste, giunte fino all’utilizzo di mezzi blindati pesanti in pieno centro a Bologna, da parte dall’allora ministro dell’Interno Cossiga; ci fa ascoltare radio Alice, l’emittente libera bolognese, la voce del Movimento, e ricostruisce, tra realtà storiche e finzione letteraria una vicenda politica più generale che abbraccia la strategia della tensione ed i progetti eversivi di quel periodo. In un dossier che andrà distrutto nell’attentato alla stazione di Bologna, lo scrittore ci propone una ricostruzione credibile degli obiettivi dello stragismo che insanguinò l’Italia di quegli anni che sarebbero dovuti culminare nel colpo di Stato del dicembre ‘70 organizzato da Junio Valerio Borghese, detto anche il principe nero, ma di cui egli stesso ordinò l’annullamento e che fu reso noto solo tre mesi dopo quando Borghese, destinatario di un ordine di cattura, riparò in esilio in Spagna. Ciò non fermò il lavoro degli apparati sottratti al controllo democratico e dei servizi deviati che proseguirono nel realizzare stragi e ad organizzare manovre eversive stringendo patti ed accordi con formazioni criminali e mafiose e continuando a nutrire la Loggia Propaganda 2, alla cui gestione fu delegato, proprio nel giugno di quell’anno, Licio Gelli.
Questo il prologo del libro a quattordici anni dai fatti che vi sono raccontati quando, nel maggio 1994, Alessandro Bellezza sente annunciare dell’incarico a Berlusconi di formare il nuovo governo: “ero rimasto ad aspettare il futuro e il futuro era arrivato”.
Un libro politico, certo, e come tale vivibile in modo molto diverso, credo, in base alle convinzioni personali, alla conoscenza storica, alla visione del nostro Paese che ha ognuno di noi. Un libro scritto benissimo, avvincente, intrigante, a tratti sconvolgente; non esiste un antagonista “puro”, tutto è violenza, tutto è terrore. E l’odore acido, quello dei lacrimogeni, del sangue, della paura, del piombo lo si sente forte e chiaro.

Natale

Per me quest’anno non è stato negativo. Impegnativo, quello si, scandito da ansie, solitudini, dal tempo, talvolta concentrato ed altre dilatato di mesi strani che, pur restando immobili, sono comunque volati. La fatica maggiore è stata quella di sopportare e gestire la distanza dalla mia famiglia che però non si è mai trasformata in distacco perché quello che è dentro di te non si allontana mai, il dolore più grande quello di vedere così poco la mamma, e, soprattutto, di non poterla stringere a me per farle sentire più forte la gratitudine per il suo grande amore perché, anche a cinquantaquattro anni, proprio come l’acqua di un fiume che non sceglie il suo corso ed il suo destino, ogni gioia ed ogni dolore arrivano a lei il cui sesto senso non è stato minimamente scalfito dall’età e la cui generosità ha sempre abbracciato noi figli infondendo coraggio, fiducia, speranza. Per me quest’anno non è stato negativo perché ho sempre sentito forte l’affetto dei miei fratelli, ho avuto molto vicina un’amica speciale che mi conosce abbastanza per sapere che, quando non sto bene, mi chiudo a riccio e mi lecco le ferite e riesce ad essere presente con delicatezza e solida costanza anche se i nostri “ritmi vitali” sono talvolta così diversi, ho avuto piccoli viaggi e una bella vacanza, attimi di vera gioia che mi hanno regalato una me che credevo dimenticata, sogni, un pezzetto di passato che ha fatto capolino lasciando domande prive di risposte ma che, con mio grande sollievo, ho scoperto essere dentro di me ma di essere capace di non insistere per trattenere. Ho avuto un lavoro con scontri, anche violenti, insoddisfazioni e qualche gratificazione. Ho imparato a conoscermi un po’ di più e a perdonarmi alcuni dei miei limiti. E sono arrivata qui, un pochino più vecchia, un pochino più consapevole con una nuova voglia di addobbare, finalmente, la mia casa ed il mio cuore a Natale.

Il colibrì di Sandro Veronesi

Non sono una scrittrice, non ho capacità ed esperienza tecnica; per questi motivi, fino a pochi anni fa, non avrei mai osato mettere nero su bianco un mio pensiero negativo riguardo ad un romanzo vincitore del Premio Strega supponendo di non essere all’altezza di un tale genere di operazione. Sicuramente sto invecchiando, aumentano le rughe sul mio viso parallelamente alla mia esperienza; non sono una scrittrice, mi sono detta, ma sono una lettrice curiosa e vorace e, soprattutto, sono una consumatrice. Forse è brutto utilizzare questo termine ma, alla realtà dei fatti, comprando un libro acquisto un oggetto privo della clausola “soddisfatti o rimborsati” e se, oltre tutto, questo romanzo ha vinto un premio importante, mi sento in diritto di dire la mia perché tutto ha un limite, anche il sentirsi presi in giro da questo mondo editoriale falsato e corrotto che sposta sempre più il concetto di letteratura verso quello di mercato e di consumo. Proprio per non farmi influenzare dalle critiche, per far scorrere del tempo ed allontanarmi dai condizionamenti mediatici, ho atteso per leggere “Il colibrì”; che Veronesi sia del mestiere, che sappia usare le parole, che sappia costruire una storia non vi è dubbio anche se, sinceramente, alcuni termini tipo “rospata” li ho trovati tanto fastidiosi quanto inutili alla stessa stregua dei messaggini riportati a pioggia che, in un libro, destano in me un’idiosincrasia pari a quella dell’abuso indiscriminato che si è fatto quest’anno del termine resilienza. Il colibrì muove freneticamente le ali per restare fermo nello stesso posto, fosse partito Kafka da questo presupposto sono certa avremmo avuto un altro tipo di evoluzione, invece Veronesi ci propina la storia di Marco Carrera, soprannominato colibrì perché piccolo a causa di un ritardato sviluppo fisico, una storia fatta dell’alternanza di immobilità e ripetizioni, lutti, malattie, ossessioni, che dovrebbero smuovere in noi emozioni forti e che invece restituiscono soltanto una sensazione di noia incolore, a tratti di puro fastidio. Il tutto, fino ad un certo punto, potrebbe anche risultare sopportabile, ma no, qui dobbiamo creare forse il romanzo del secolo, e allora perché non metterci pure la nascita di una bambina tanto surreale da sembrare uscita da una serie fantascientifica di Netflix ed il tema dell’eutanasia, che tanto male non fanno? Un libro vacuo, direi quasi offensivo nel nome di grandi scrittori che vinsero il prestigioso premio nel passato e anche di quelli che, come me, lo hanno acquistato. Veronesi ha perso per sempre una lettrice e la giuria dello Strega il mio rispetto.

Caro Babbo Natale

Caro Babbo Natale, il 10 Dicembre 2009, tanto tempo fa, in un altro mondo ed un’altra vita scrissi il seguente post:

Sono seduta al tavolo, in braccio la mia nipotina che compirà tre anni tra pochi giorni. Stiamo disegnando.

– zia Micky….

– si?        

– ma Goccia ( il mio gatto) abita con te?

– certo tesoro

– e pecchè?

– perché così ci teniamo compagnia

– … zia Micky…

– dimmi…

– ma non preferisci un uomo?

– (azz….)…amore, sai, bisogna trovare l’uomo giusto

– …e tu ceccalo…

– (dici niente…) e come lo cerco tesoro, come il tuo principe ranocchio?

– ma noooooo…quello e trooppooo verdeeee…

– lo cercherò tesoro, ma non so se sarà facile trovarlo

– e tu chiedilo a Babbo Natale, noooo?

Caro Babbo Natale, è un po’ che non ti scrivo ma ora, a seguito di sollecitazione da parte di una dolcissima fanciulla, mi accingo a farti un’umile richiesta. Desidererei un Uomo e so che la maiuscola limita già molto il tuo campo di ricerca. Giustamente ti servirà qualche informazione: se dicessi vorrei un bambola potrebbe arrivarmi una Pigotta, un Cicciobello, una Barbie o una Bratz, e c’è senza dubbio una bella differenza. Stante la U sarebbe necessario un principe assolutamente non verde, non nero, e non scherziamo neppure nel cercare di rifilarmelo azzurro; la colorazione dovrebbe tendere al rosso non essendo tuttavia vincolanti la falce ed il martello. Dovrebbe essere una Persona (troppe maiuscole…vabbeh…fosse facile mica disturberei te), intelligente, onesta, attenta agli altri, curiosa della vita, che non si stanchi di imparare e di stupirsi, qualcuno che sappia sorridere e godere di ciò che di bello ha ma che non pensi sia un reato mettere in luce anche le proprie debolezze e cercare l’appoggio in chi gli sta vicino, quando necessario. Vorrei una Persona che esca dagli schemi di questa società in cui si consumano oggetti e persone, creando rifiuti, qualcuno che ancora creda che per conoscersi ed imparare a volersi bene occorra prendersi per mano e cominciare a camminare fianco a fianco, raccontandosi, creando intimità e complicità e pazientando, a volte. Vorrei qualcuno che ami davvero la vita, in tutti i suoi colori, che stia lontano quanto possibile dai pregiudizi e che non abbia troppe certezze…i mai ed i sempre non riesco ad applicarli alla mia esistenza. Vorrei qualcuno che rida e, se proprio necessario, pianga con me, che rimanga vicino, nonostante la distanza, che come me creda che la vita sia troppo bella e breve per sprecarla in rapporti inutili e sterili…forse …un raccoglitore di scintille.

Ora, caro Babbino, il tuo regalo mi fu recapitato dopo 9 mesi e già questo periodo, simil gestazione, avrebbe dovuto farmi sorgere qualche dubbio. Che io veda cose inesistenti nelle persone e che sia stordita lo sanno anche i sassi ma una tale taroccata da te non me la sarei mai aspettata, quindi, ecco, ti ringrazio, per quest’anno sono a posto e, facciamo pure, anche per il prossimo ventennio.

Foto di Judith Crowell da Pixabay

Dodici passi

Molti anni fa conobbi un uomo, un ex alcolista anche, se a suo dire, e non ho nulla per cui dubitare di ciò, non si è mai ex, si resta dipendenti lottando ogni giorno per vincere la battaglia. Credo veramente sia così; le dipendenze fisiche, affettive, mentali non si cancellano, si combattono, a piccoli passi, giorno dopo giorno. Nel mio disequilibrato equilibrio penso di avere diverse forme di tendenza alla dipendenza ed alcuni comportamenti ossessivi-compulsivi per cui dedico ogni giorno un attimo di riflessione a queste mie debolezze per imparare ad accettarle, ove possibile, ed a combatterle, quando utile. Quell’uomo era molto intelligente, colto, interessante; credevo di aver instaurato con lui un rapporto di amicizia e forse, nonostante le nostre reciproche debolezze, è stato veramente così e ci siamo voluti bene ma un giorno ho sentito che la fiducia che stavo riponendo in lui era in pericolo e, piano piano, ci siamo allontanati, fino a perderci. Oggi, che più cose ho compreso di me stessa, mi piacerebbe che lui sapesse che conservo ancora quella scatolina con inciso 12 e la croce che, sembrerà assurdo, rischiai di perdere in moto e presi al volo proprio il giorno in cui mi comunicò che gli avevano trovato una brutta malattia ma, soprattutto,  il libretto degli alcolisti anonimi dei dodici passi che, anche se non sono un’alcolista, leggo spesso per riflettere e per riuscire ad affrontare, giorno dopo giorno, tutte le mie debolezze. Oggi mi piacerebbe che lui sapesse che il passaggio nella vita di un altro essere umano non è mai invano.

Foto di Лечение наркомании da Pixabay