Forse nessuno di noi lo è davvero, di sicuro io non sono una persona perfettamente equilibrata. Sono estrema, piena di contraddizioni e vivo cercando di mantenere in equilibrio una mente razionale ed un istinto primordiale, viscerale, credo fondamentalmente animale. Quindi per onestà devo avvisare chi passerà da qui che questo luogo non è altro che il mio psicologo virtuale. Con annessi e connessi.
Sono stata assente a lungo da questo mio povero blog, lo so; ho continuato a raccogliere pensieri sparsi su carta, tra le pagine di un libro, un postit volante e il mio piccolo quadernetto sgangherato ma non li ho più deposti qui.
Non è stata mancanza di tempo, forse solo questione di priorità, ma in questi quasi due anni tanto è cambiato per me e in me da assorbire in toto le mie attenzioni e cure. Ora, come spesso accade a fine anno, posso fare un bilancio e dire a me stessa che in questo momento della mia vita più che in ogni altro, mi sento grata per ciò che mi è stato dato e orgogliosa per quanto sono riuscita a fare.
– La mia famiglia ed i pochissimi veri amici, sempre presenti a dare amore, fiducia, coraggio.
– Un lavoro nuovo, completamente diverso, per il quale non avevo competenze e che qualcuno mi ha voluto comunque offrire dandomi una nuova opportunità. Una bella sfida a 57 anni arrivare in un ambiente dove sei la “novellina” che deve imparare tutto da zero ma che ventata di entusiasmo, di curiosità, quanto ossigeno per i miei neuroni sopiti! Lo rifarei? Si, mille volte, per le persone con cui lavoro, per ciò che ho imparato e tutto quello che ho ancora da imparare, perché la mia mente si sente più giovane e perché, ancora, non anelo alla pensione ma piuttosto ad una vita lavorativa equilibrata e ricca di soddisfazione.
– Una casa nuova, o meglio, il mio microscopico nido che sempre mi ha accolto in tutti i momenti della mia vita in cui avevo bisogno di curare le ferite, che si è trasformato, dopo due mesi di distruzione e “ressurrezione” diventando, come nei miei sogni, un ambiente luminoso e caldo che non riesco a smettere di guardare e dove anche il piccolo Brandy, gatto rosso e rustico sembra trovarsi davvero a suo agio.
Questi i miei bilanci e tantissima la serenità che oggi sento dentro di me. Non posso che ringraziare la vita sorridendo.
C’est vraiment un lieu délicieux ce lac d’Orta. A l’entour, des rives à la fois sauvages et cultivées: le monde que le voyageur a vu, se retrouve en petit, modeste et pur, et son âme reposée le convie à rester là, car un charme poétique et melodieux l’entoure de toutes les harmonies, et réveille toutes idées. C’est à la fois un cloître et la vie. (Honoré de Balzac)
In Cina, c’è un detto che recita: “二月二,龙抬头 (èr yuè èr, lóng tái tóu) ossia ” Il secondo giorno del secondo mese il drago alza la testa”. Questo giorno segnala l’arrivo della primavera, della stagione agricola e, quindi, di una nuova vita. La festa di Lóng tái tóu, detta anche “春龙节 (Chūn lóng jié), o Festa del drago della primavera, prende il nome dall’antica astronomia. Nel cielo orientale si possono infatti riconoscere sette costellazioni che, unite tra loro, ricordano la forma di un drago; in inverno tutte le costellazioni si trovano dietro l’orizzonte settentrionale e non sono visibili mentre, con l’arrivo della primavera, due delle costellazioni del drago, quelle che rappresentano la parte superiore, spuntano sopra l’orizzonte meridionale diventando visibili mentre il resto del corpo del drago resta ancora nascosto. Il giorno in cui ciò accade è detto, appunto, 龙抬头 Lóng tái tóu, ovvero “drago che alza la testa”.
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Il drago riveste un ruolo egemone nella mitologia cinese in generale essendo l’incarnazione del concetto di yang, lo spirito fecondo e creatore maschile, ed avendo, in quanto tale, un significato simile al genius, lo spirito della famiglia dell’antica religione romana.
Una leggenda racconta che un anno la terra venne colpita da una grande siccità e solo l’intervento del drago, che per compassione fece piovere, salvò molte persone da una morte certa dovuta alla siccità ed alla conseguente carenza di cibo. L’imperatore di Giada (la divinità suprema del Taoismo) imprigionò il drago in una montagna e disse che non lo avrebbe liberato finché non fossero fiorite pepite d’oro ma fu ingannato dagli uomini che, notato che la soia tostata assomigliava a piccole pepite d’oro, ne tostarono in grandissime quantità fino a che, il secondo giorno del secondo mese il drago fu finalmente liberato. Un’altra versione della leggenda narra invece che, dato che non pioveva da molto tempo, l’Imperatore di Giada ordinò al giovane drago nel Mare Orientale di far piovere ma quest’ultimo era impegnato a giocare nell’acqua e non voleva uscire. Un ragazzo, dopo aver attraversato innumerevoli prove e difficoltà, alla fine trovò un modo per sottomettere il drago e lo fece uscire con successo dall’acqua in modo che potesse far piovere. Qualunque sia l’origine della festività ogni anno si cerca la benedizione del drago per un raccolto buono e fortunato.
Ecco alcune cose che sarebbe bene fare in questa giornata:
1. Mangia il cibo del drago e mostra la sua potenza. Durante Lóng tái tóu, alcuni cibi vengono chiamati come parti del corpo del drago; così i noodles diventano barba di drago, i ravioli orecchie di drago, gli involtini scaglie di drago ed i pancake pelle di drago.
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2. Mangia “soia fritta”: i fagioli dorati sbocciano, le benedizioni arrivano. In realtà la soia fritta legata alla tradizione oggi è stata largamente soppiantata dai pop corn.
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3. Taglia i capelli. Sin dai tempi antichi esiste l’usanza di radere la testa dei bambini in questo giorno (“radere la testa del drago” o “radere la testa felice”) al fine di benedirli e propiziare loro successo futuro. La rasatura dei capelli ha anche il significato di sbarazzarsi del vecchio ed accogliere il nuovo. Molti credono che andare dal barbiere in questo giorno tolga la sfortuna, mentre altri credono che tagliarsi i capelli durante il primo mese del calendario lunare porti sfortuna tanto che, un tempo, era tradizione fare la fila fuori dai barbieri il giorno di Lóng tái tóu, dopo aver evitato di tagliarsi i capelli nel mese precedente. Il posto migliore per fare affari in questa giornata, quindi, è ovviamente il barbiere!
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4. Poni il cibo della casa nel mezzo dei recinti. Uno dei proverbi più popolari della Festa di Lóng tái tóu, ampiamente diffuso nella Cina settentrionale, dice: “il drago alza la testa, il grande magazzino è pieno, il piccolo magazzino scorre” e pone le basi di un’altra tradizione tipica di questa festa, sempre più in disuso. Le persone raccolgono la cenere dal fondo delle stufe e, in casa o nel cortile, la usano per disegnare dei cerchi che rappresentano silos; a questo punto il cibo viene posto nel mezzo dei cerchi sparso nelle vicinanze a simboleggiare il grande raccolto dell’anno.
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5. Partecipa alla Cerimonia di apertura della penna. Purtroppo anche questa è un’usanza ormai in disuso. Anticamente, in questo giorno, i bambini venivano vestiti a festa e veniva loro regalata una penna con cui scrivere per la prima volta. Con questa cerimonia i genitori speravano che i figli crescessero colti e intelligenti, in quanto la calligrafia era il primo passo dell’istruzione.
Ho iniziato a leggere questo libro un pochino prevenuta, devo ammetterlo, perché troppo mi rimandava la mente all’amatissima “Novella degli scacchi”, l’ultimo racconto scritto da Stefan Zweig prima del suo suicidio. Moltissimi, infatti, sono i richiami e le similitudini, a parte, naturalmente il gioco degli scacchi in sé. Il libro, che comincia con la morte di un ricco imprenditore austriaco e famoso maestro di scacchi, è scritto bene, con un linguaggio ricercato, accurato ed elegante; l’autore costruisce la storia di una vendetta affidando a due voci narranti che si alternano, tra fleshback e ritorni, il filo rosso che conduce il lettore, in un percorso a ritroso, dall’atto finale alle cause che lo hanno generato.
La lettura mi ha dato conferma dei miei dubbi iniziali; in totale ho trovato questo libro al contempo bello, in quanto ben scritto, e molto furbo, in quanto perfettamente “costruito”. A mio modesto parere, infatti, l’autore “ricalca”, perché si tratta di più che semplice ispirazione, gli scritti di grandi letterati miteleuropei quali appunto Zweig ma anche Bernhard con il suo Soccombente (le variazioni Goldberg di Bach) e forse anche un pochino di Marai e del suo “Le braci ” nel quale l’acredine di una vecchia amicizia rimane ardente come brace di un fuoco non del tutto spento nel corso degli anni.
Maurensig attinge a piene mani, prendendo spunti di contenuti e stile, ed aggiunge il tema dell’Olocausto creando un connubio perfetto per trama e svolgimento anche senza riuscire a far nascere in me una reale empatia: la differenza tra il genio creatore ed il bravo esecutore, insomma, un po’ come in tutte le arti. In totale se avessi letto questo libro vent’anni fa ne sarei rimasta entusiasta, e, forse, è enche questo il bello di invecchiare.
È possibile, leggendo un saggio, percepire la suspance ed il phatos di un romanzo giallo o sentirsi come quando, tanti anni prima, si era gustato Il mistero di Marie Roget, bellissimo racconto di Edgar Allan Poe, in cui lo scrittore, partendo da un cruento fatto di cronaca e basandosi esclusivamente sulle notizie trovate sui giornali dell’epoca, tenta di risolvere il caso in modo che la verità letteraria possa indicare la via alla verità giudiziaria? Lo è se il saggio è stato scritto da Leonardo Sciascia, “poliziotto di Dio”, come è stato definito dall’amico Gesualdo Bufalino; lo è se si tiene per le mani un testo che ha la forza dirompente della ricerca della verità dei fatti in contrapposizione alle sovrastrutture sociali che hanno determinato la verità storica in un ibrido, sempre perfettamente equilibrato, tra giallo, inchiesta, saggio sociale e riflessione filosofica.
La vicenda è nota: Ettore Majorana ha 32 anni e da pochi mesi è stato nominato professore di Fisica teorica per meriti eccezionali presso l’Università di Napoli. Il 25 marzo del 1938, dopo aver inviato una lettera al direttore del suo istituto, averne lasciata un’altra per la famiglia, prelevato una somma considerevole di denaro e preso il passaporto, si imbarca sul piroscafo che fa servizio da Napoli a Palermo e da quel momento in poi, a parte un’altra lettera ricevuta dal direttore, di lui non si hanno più tracce certe. La deduzione degli inquirenti, in base al contenuto delle lettere, è che il giovane sia scomparso con propositi suicidi, probabilmente a causa di uno stato di follia, e a nulla valgono le richieste di indagini più approfondite da parte della famiglia e di Enrico Fermi (che tuttavia, essendo sposato con un’ebrea, a dicembre, dopo aver ritirato il Nobel, emigra negli Stati Uniti ).
Sciascia, rispolverando documenti d’archivio ed intervistatando persone che hanno o potrebbero aver incontrato Majorana, svolge un’indagine investigativa ricostruendo la sua versione di verità non solo dipingendo la figura dello scienzato ma, mi è parso, quasi cercando di immedesimarsi profondamente in lui, nella sua psiche e nel suo animo inquieto. Un giovane siciliano dalla mente brillante, capace fin da bambino di svolgere mentalmente, in pochi secondi, calcoli complicatissimi, giocatore di scacchi, “il più grande fisico teorico dei nostri tempi che deve essere annoverato fra la ristrettissima cerchia dei geni, accanto a Galilei e Newton”, come lo descrisse lo stesso Fermi. Majorana, inizialmente iscrittosi ad ingegneria passa a fisica, nel gruppo dei “Ragazzi di via Panisperna” e si laurea nel 1929 con una tesi sulla teoria quantistica dei nuclei radioattivi; sempre piuttosto schivo, più incline al lavoro solitario che a quello di gruppo, modesto, critico, tanto da risultare ruvido, ma anche autocritico, nel 1933 si reca a Lipsia ove conosce e lavora con Werner Heisenberg, con il quale instaura un ottimo rapporto dissertando di scienza e di filosofia, incontro che rappresenta probabilmente per lui una svolta importante.
E mentre ci racconta il personaggio, Sascia narra anche la sua evoluzione in uomo afflitto da gastrite, che, tra il ’34 e il ’37 diviene sempre più chiuso, schivo, forse un po’ misantropo, meno incline a pubblicare e condividere; anni nei quali, sempre più lontano dalla vita sociale, approfondisce il suo interesse per temi filosofici ed in particolare per l’opera di Schopenhauer. La risposta a questa chiusura l’autore la trova nella “scelta”; Ettore ha compreso, prima di tutti gli altri, a cosa porteranno gli studi che stanno conducendo e sceglie, consapevolmente, di non voler contribuire a quella che sarà la scoperta scientifica più terribile, per l’impiego che ne verrà fatto, del ventesimo secolo. Una scelta morale dettata dell’etica e che porta ad una vita diversa, all’abbandono di una sicura fama in cambio di un mondo di pace, isolamento e riflessione; il “gran rifiuto” che conduce alla libertà. E come può un tale genio, non riuscire ad approntare una messa in scena capace di nasconderlo per sempre agli occhi del mondo in perfetto parallelismo con Il fu Mattia Pascal di Pirandello, scrittore da lui molto amato?
«Chi, sia pure sommariamente, conosce la storia dell’atomica, della bomba atomica, è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero»
Sciascia non affermò mai di avere raccontato la verità su Ettore Majorana e molti lo accusarono di aver contibuito, con questo suo libro, ad allontanare la letteratura dalla scienza. Può essere, quello che posso affermare è che a me, di sicuro, piace pensare che sia andata proprio così. Alla fine non è anche questo il bello della letteratura: poter immaginare e raccontare una speranza per l’essere umano?
Nota: Suvahun è stato scritto nel 1969 da Simin Dāneshvar considerata la prima grande romanziera Iraniana. È uno dei più venduti romanzi persiani, ristampato sedici volte e tradotto in molte lingue.
Vi capita mai di leggere un libro e di sentire in voi, come in assonanza alle parole scritte, una particolare colonna sonora? A me è successo, leggendo Suvashun, di galleggiare tra il testo, splendidamente scritto, e le parole de “La cura” di Franco Battiato; perché Zari, nobildonna di Shiraz, e voce narrante, raccoglie in sé tutto l’amore, la dedizione, il valore della cura nei confronti dell’amato e dei figli.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore Supererò le correnti gravitazionali Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
I protagonisti di Suvashun sono molti, in realtà. Protagonisti sono infatti la Storia con l’occupazione, durante la seconda guerra mondiale, dell’Iran, inizialmente dichiaratosi neutrale, da parte delle forze militari inglesi e russe allo scopo di impedire alla Germania nazista di impossessarsi delle risorse petrolifere del Paese; l’amatissimo marito di Zari, Yusuf, proprietario terriero ricco ma, al contempo, giusto e generoso, che resiste agli occupanti in favore del suo popolo e combatte senza ipocrisia contro la corruzione e la sete di potere di alcuni suoi connazionali, tra i quali il fratello; il piccolo e coraggioso figlio di Zari e Yusuf e le vivaci gemelle; il nipote, la cognata, il Governatore e mille altri personaggi che la scrittrice utilizza per dipingere la società Iraniana dell’epoca con tutte le sue contraddizioni, attirata e respinta dagli opposti estremismi della propria cultura e di quella occidentale.
Tra tutti Zari resta, per me, la grande protagonista: una donna moderna, colta, che condivide le idee del marito e si emancipa custodendo le proprie tradizioni, la propria storia, la propria femminilità, mai abdicata, con una determinazione che non la priva di grazia e dolcezza.
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza
Zari teme, mai per se stessa, ma sempre per coloro che ama. Per questo è dilaniata da un terribile dilemma: sottomettersi e perdere le proprie libertà ed identità o ribellarsi e soccombere? Zari sa che la scelta di Yusuf è quella più giusta per il suo uomo e per il suo Paese ma, oltre a considerare la violenza come la negazione della creazione stessa, è spaventata al pensiero che prendere una posizione politica possa distruggere la sua famiglia. E così prosegue, senza impedire nulla ma non incoraggiando il marito e sentendosi perennemente inadeguata, nella sua vita di cura e assistenza e mediando con l’innato istinto di moderazione che la caratterizza.
Con un’immagine estremamente poetica del libro, Zari, come l’uomo che riempie le fontane facendo girare con il piede la ruota dell’acqua per tutta la giornata in modo instancabile, fa girare, con la propria esistenza, la ruota che porta sostegno vitale alla sua famiglia senza poter far null’altro per sé che proteggere, tra fontanelle, giochi di bimbi, fiori e soprusi ai quali non trova il coraggio di ribellarsi. E i soprusi da parte di suoi connazionali sono quelli più gravi e difficili da accettare perché emblematici di un mondo che, non sufficientemente coeso, lascia spazio al propagarsi di forze esterne e distruttive. Zari vede il suo Paese andare in pezzi e non può accettare che lo stesso accada alla sua famiglia, il suo unico e vero universo.
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono Supererò le correnti gravitazionali Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
Ma contro il male l’amore non basta e, quando in un attimo, il mondo di Zari crollerà, quando il suo microcosmo sarà devastato da forze vigliacche ed incontenibili lei, dopo un iniziale spaesamento simile al delirio, troverà il coraggio, nonostante i figli bambini ed il futuro che porta in grembo, di restituire il colpo sfidando l’ingiustizia di una Storia che tutto distrugge.
” L’umanità è una storia e può divenire qualsiasi storia: dolce, amara, triste … una storia eroica. Il corpo umano è fragile, ma nessuna forza a questo mondo eguaglia la sua forza spirituale, a patto che ne abbia la volontà e la consapevolezza”
– (dici niente…) e come lo cerco tesoro, come il tuo principe ranocchio?
– ma noooooo…quello e trooppooo verdeeee…
– lo cercherò tesoro, ma non so se sarà facile trovarlo
– e tu chiedilo a Babbo Natale, noooo?
Caro Babbo Natale,è un po’ che non ti scrivo ma ora, a seguito di sollecitazione da parte di una dolcissima fanciulla, mi accingo a farti un’umile richiesta. Desidererei un Uomo e so che la maiuscola limita già molto il tuo campo di ricerca. Giustamente ti servirà qualche informazione: se dicessi vorrei un bambola potrebbe arrivarmi una Pigotta, un Cicciobello, una Barbie o una Bratz, e c’è senza dubbio una bella differenza. Stante la U sarebbe necessario un principe assolutamente non verde, non nero, e non scherziamo neppure nel cercare di rifilarmelo azzurro; la colorazione dovrebbe tendere al rosso non essendo tuttavia vincolanti la falce ed il martello. Dovrebbe essere una Persona (troppe maiuscole…vabbeh…fosse facile mica disturberei te), intelligente, onesta, attenta agli altri, curiosa della vita, che non si stanchi di imparare e di stupirsi, qualcuno che sappia sorridere e godere di ciò che di bello ha ma che non pensi sia un reato mettere in luce anche le proprie debolezze e cercare l’appoggio in chi gli sta vicino, quando necessario. Vorrei una Persona che esca dagli schemi di questa società in cui si consumano oggetti e persone, creando rifiuti, qualcuno che ancora creda che per conoscersi ed imparare a volersi bene occorra prendersi per mano e cominciare a camminare fianco a fianco, raccontandosi, creando intimità e complicità e pazientando, a volte. Vorrei qualcuno che ami davvero la vita, in tutti i suoi colori, che stia lontano quanto possibile dai pregiudizi e che non abbia troppe certezze…i mai ed i sempre non riesco ad applicarli alla mia esistenza. Vorrei qualcuno che rida e, se proprio necessario, pianga con me, che rimanga vicino, nonostante la distanza, che come me creda che la vita sia troppo bella e breve per sprecarla in rapporti inutili e sterili…forse …un raccoglitore di scintille.
Ora, caro Babbino, il tuo regalo mi fu recapitato dopo 9 mesi e già questo periodo, simil gestazione, avrebbe dovuto farmi sorgere qualche dubbio. Che io veda cose inesistenti nelle persone e che sia stordita lo sanno anche i sassi ma una tale taroccata da te non me la sarei mai aspettata, quindi, ecco, ti ringrazio, per quest’anno sono a posto e, facciamo pure, anche per il prossimo ventennio.
Era un mondo meraviglioso il suo, anche se lei poteva osservarne solo una piccola parte, costretta e legata, insieme alla sua famiglia, a quello scoglio che, da sempre, era stata la sua casa. Un mondo, attorno, che non era mai riuscita a visitare: Mediterraneo, le avevano detto si chiamasse.
Tantissime le specie che abitavano li sotto, esseri di ogni forma, colore e dimensione e lei osservava tutto, curiosa, ansiosa di imparare e di capire. “Tu sei una conchiglia”, le avevano detto i suoi fin dalla nascita, “devi esserne fiera ed orgogliosa”. E lo sarebbe stata, certo, se non si fosse lasciata condizionare dal giudizio degli altri. Non aveva mai invidiato nessuno, per carità ammirato, quello si, ma spesso si era sentita beffeggiare da sue consimili, che vivevano vicino a lei.
C’era, ad esempio, una tale Charonia Nodifera: come era grande e bella! Li, nei fondali tutti sapevano che il dio Tritone ci soffiasse dentro usandola come tromba per richiamare i suoi sudditi. Bianco-grigia, con flammule brune aveva quell’aspetto altezzoso donatole dal labbro incurvato all’esterno ed ornato di denti radi e di colore marrone. Poi c’era la famiglia delle Pectinidae, dalla forma a pettine; nobili ed altere, raccontavano che persino Venere, nascente dalla spuma, era stata sostenuta da una di loro e sospinta dal vento fecondatore di Zefiro fino alla riva. E poi c’erano le Ostriche: erano bruttine loro, a dire il vero, ma si vantavano di appartenere ad un ricco casato e che le loro lontane parenti del Pacifico fossero le uniche detentrici di misteriosi tesori dette perle, lacrime delle Naiadi solidificate o rugiada sfiorata dal tocco della stessa Venere.
E le vanitose sirene si ornavano di collane fatte di conchiglie, di ogni forma e colore, piccole e grandi, tutte, indistintamente, tranne quelle della sua famiglia. Anzi, la schernivano. “E tu saresti una conchiglia? Ma non lo vedi come sei brutta, così liscia e scura? Non servi a nulla, non darai mai gioia a nessuno, non sei bella e non conservi ricchezze. Sei proprio una cozza!”.
Ma lei non voleva credere a queste parole, sentiva, dentro di sé un grande cuore battere e continuava a pensare che anche la sua esistenza dovesse avere un senso, pur non riuscendo a capire quale. E poi un giorno accadde: vennero a prenderla, con delicatezza la raccolsero, la posero in acqua dolce togliendole quelle barbe fastidiose che l’avevano immobilizzata tutta la vita, facendola finalmente sentire libera, e le fecero il solletico con uno spazzolino rendendola lucida e brillante. La lavarono e la posero in un tegame, e quando, tra il calore ed il profumo di quel vino che le faceva compagnia, si dischiuse seppe, finalmente, che la cosa che contava davvero di lei non era l’involucro, non erano le ricchezze, ma il cuore che avrebbe reso felice qualcuno. La assaporarono ridendo, guardandosi negli occhi, utilizzando le mani per imboccarsi a vicenda, ritorno archetipico al contatto col cibo, e la sua anima fece nascere nelle loro nuove scintille.
Non ho paura di invecchiare, non ancora almeno, forse un giorno, chissà. Se sono mai diventata grande davvero non saprei dirlo, è un periodo questo in cui vivo tutto con una curiosità, con un desiderio di scoprire, conoscere, capire che, a volte, mi fanno risentire bambina. Sto cercando di vedere me stessa in modo diverso e, così facendo, vedo anche il mondo e la vita in modo diverso. Mi sono sentita schiacciata da troppi pesi e responsabilità, ho mantenuto vivi rapporti faticosi che mi logoravano credendo che quello fosse il mio dovere, ho lavorato con impegno e dedizione dando anche molto più di quanto mi venisse richiesto. Mi dicevo: sono fatta così, ma quel mio essere fatta così non mi faceva respirare. Arrivare al punto di pensare che troppi hanno bisogno di te ma che di te, in realtà, non importa molto a nessuno e non riuscire a trovare la forza per cambiare rotta è difficile, devi rimettere in dubbio tutto quello che è stato e, soprattutto, devi mettere in dubbio te stessa. Non hai più alcuna certezza e capisci, con stupore, che non sono stati gli altri a usarti, a farti del male o a condizionare le tue scelte ma sei stata tu a permettere loro di farlo. Capisci che di tutte le responsabilità che ti sei presa sulle spalle hai trascurato la più importante, ossia quella verso te stessa. Ed è allora che provi a guardare le cose da un altro punto di vista e scopri con gioia che, anche se più di metà della tua vita se ne è andata, tutto quello che ti resta ancora da vivere è nelle tue sole mani.